Sotto terra, in una scatola di cemento


Tentarono di dare una via d’uscita al sanguinoso diverbio tra Israele e gli Arabi ma ottennero solo il benservito con una scarica di pallottole, da parte dei propri correligionari. Sadat venne freddato dai Fratelli Musulmani nel corso di una rassegna militare perché lo si accusava di aver tradito la causa mettendosi a dialogare col nemico (proprio lui, che aveva intrapreso la guerra dello ‘Yom Kippur’ con la vana speranza di poterne venire a capo con un attacco a sorpresa). L’altro, il primo ministro israeliano, Yitzhak Rabin, venne ucciso nel 1995 a colpi di pistola da un giovane estremista che volle così fargli espiare la colpa di aver dialogato con Arafat e di aver firmato gli accordi di Oslo coi quali riconosceva il diritto della popolazione araba di ergersi a Stato all’interno della Palestina.

Il vero problema, insomma, è che, l’odio, alimentato, per ragioni legate alla complessità degli affari internazionali, anche da attori estranei al contesto,  è la tassa di successione che, in quella terra martoriata, i figli debbono pagare subentrando ai padri: un sentimento di pietra che si manifesta, da un lato, – come già è successo – nelle risonanze sbiadite del ‘reve’ che penetrano emblematicamente oltre il muro, a mo’ di sfottò, e, dall’altro, dall’altra parte del muro, nella stia per polli dove sopravvivere è un lusso e può quindi attecchire la tentazione di piombare con dei deltaplani su quella gente lì, che pensa solo a gozzovigliare e a ballare, facendone strage.

E’ impressionante come, per refertare sulle origini, prossime e remote, di questo ascesso della Politica e della Storia, si indulga ora sull’avidità degli israeliti che hanno rubato la terra agli arabi; ora sull’ostinazione di una parte cospicua del mondo arabo nel pretendere che Israele si dissolva facendo puff come nei fumetti di Paperino; ora , avendo più  ragione di tutti gli altri, sull’atteggiamento di gran parte degli Israeliani  verso i palestinesi, ai quali sottraggono, un po’ alla volta, in sordina, ogni diritto sostanziale, nella striscia di Gaza, e in Cisgiordania, dove si diffondono come un virus.

C’è, tuttavia, una versione delle cose che non si polarizza sul contenzioso  israelo/ palestinese e che spazia molto più in là, partendo dall’assunto che Israele è visto dall’islam radicale come un avamposto piazzato dall’Occidente  in un mondo che non  è il suo, allo scopo di soggiogarlo: poco importa che da questa parte l’opinione pubblica, indifferente alle astuzie e alle ipocrisie dei Governi, propenda per i palestinesi, purché non si identifichino con Hamas, e  purché, inoltre, non facciano un copia/incolla del trucco contestato alla controparte, quello che consiste nel commettere i peggiori delitti facendo, ad ogni piè sospinto, professione di vittimismo.

Dovrebbe suscitare una riflessione il tono  degli interventi fatti dal regime teocratico di Teheran in occasione dell’ecatombe di Re’im e della successiva rappresaglia israeliana: prima, le congratulazioni  alla dirigenza di Hamas, poi l’appello rivolto, non ai Paesi arabi, ma più estensivamente, all’Islam, per una pronta vendetta oltre che contro lo Stato ebraico, anche  contro  l’Occidente colpevole di appoggiarlo. Di fatto, una chiamata alle armi, rivolta anche al singolo musulmano, ovunque si trovasse, ed infatti subito dopo sono venuti fuori, in una cittadina della Francia, la solita coltellata e il solito morto, al grido di ‘Allah akbar!’, la colonna sonora di tutti gli attentati vidimati dall’Islam ai danni di persone e cose dell’Occidente: ma è stato solo l’inizio, di una serie che terminerà da sé, non perché siano stati capaci di contrastarla.

Qui, tutt’intorno, è il regno di una coriacea omertà. Nella primavera del 2019 bruciò ‘Notre Dame’, un grande rogo, che divampò improvviso in sincrono con quello di altre chiese, che si spensero presto perché c’era poca roba da ardere, ma sentenziarono, per  scongiurare dei torbidi, che esso era dipeso da un fornelletto lasciato acceso dagli operai. I panni sporchi della verità e della realtà finiscono in una specie di lavatrice – il territorio del ‘politicamente corretto’ che comprende usi, consumi, pensieri e parole –  e ne escono trasformati in deliziosi eufemismi. Il terrorista, sorpreso col kalashinkov in mano (ne ha ammazzati già cento, e se la Storia assomigliasse ad una partita di calcio, avrebbe vinto con uno scarto stratosferico), è derubricato a ‘presunto terrorista’; l’affiliato all’ISIS, che hanno arrestato mentre studiava come produrre esplosivo, è un italiano ‘di origini arabe’ benché si chiami Hassan o Abdel, e nel pregare si volga invariabilmente verso La Mecca.      

Proprio la complessità apparente del tema, mi autorizza a fare qualche divagazione. In Tunisia, dove sono andato più di una volta qualche anno fa, mi disturbava non poco il fatto che i miei giovani interlocutori, nel sapermi italiano, esordivano, sghignazzando, con degli accenni alle reti di Berlusconi e a ‘Colpo Grosso, la trasmissione televisiva in cui c’erano delle donne che mostravano il seno.  Ciò che ne ricavavo era che, per loro, l’Italia, da cui erano divisi da un braccio di mare, era qualcosa di molto simile al Paese dei Balocchi di Collodi, un topos inarrivabile, verso il quale il desiderio si protendeva però frammisto a sentimenti nocivi, come l’invidia. Ne ebbi conferma dalle raffiche di mitra sparate nel 2015 sui turisti in visita al museo del Bardo e su quelli che giacevano inermi sotto l’ombrellone sulla spiaggia di Souse: una carneficina.

Condizionati, forse, dal bisogno di apparire ferrati nel disbrogliare l’algebra delle relazioni internazionali, e dalla paura di essere accusati di semplicismo,  non solo abbiamo trascurato la conta delle vittime innocenti falciate alle nostre latitudini dai  giustizieri dell’Islam, ma ci siamo dimenticati (ancorché ci vantiamo di aver dato vita a tale materia) di sottoporre al vaglio delle nostre modeste nozioni di psicologia la scelta dei loro obiettivi: che coincidono spesso con chi, determinando  un insopportabile contrasto con la plumbea precettistica del Corano, viene colto nell’atto di divertirsi (il ‘rave’ di Re’im e il  ‘Bataclan’ di Parigi) o di godere di una  dozzinale  tranquillità, come i nizzardi che festeggiavano il 14 luglio passeggiando sul lungomare.

Quest’Europa, resa piccola dall’essersi messa al servizio degli USA e dall’essersi alienata, ormai definitivamente, la possibilità di ‘auscultare’ le pulsioni profonde dei popoli che amministra (la livida compostezza del ragioniere che si seppellisce tra le pratiche del catasto), non solo non sa reagire, ma si compiace della propria inerzia, che è, all’ingrosso, ciò che caratterizza lo stato di una pallina di ferro concupita da più magneti. Nel caso, da due lobbies tentacolari, come quella ebraica che agisce sull’Alta Finanza e sui Media (checché ne dicano i vari Lehner, Mieli, Mentana, Ferrara), e come quella islamica, che guadagna terreno al rallentatore prendendola alla gola con l’oro giallo e con l’oro nero.

In definitiva, c’è una diapositiva – proprio di questi giorni e – che ritrae fedelmente le condizioni della vecchia Europa, e, ancor più, dell’Italia, che le riproduce aumentandone la portata: sta lì, in Libano, a ridosso di un confine facoltativo, rannicchiata sotto terra, in una scatola di cemento. Di sopra, si scambiano cannonate Hezbollah e Israele.

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