Ma io non sono Pasquale

Ma io non sono pasquale

È un po’ come se, frequentando l’ultimo anno del conservatorio, uno avesse imparato a distinguere una nota dall’altra ma non fosse capace di leggere la musica: un vizio comune a molti commentatori che si piccano di saper intrepretare gli arcani della politica e i geroglifici della Storia. Non legano, non si preoccupano di scoprire cosa c’è dietro: un’impresa che comporta molto meno impegno e molto meno estro di quanti ne occorrono per stabilire, alla maniera di uno Spengler o di un Toynbee, cosa ci riservi per il futuro la proiezione ortogonale di tutti gli elementi che compongono l’immediato.

Sarebbe già tanto, dunque, che ricorressero, nell’interrogazione dei fatti, l’espressione sgualcita e la pettinatura alla sanfason del tenente Colombo, quello che risaliva all’identità dell’assassino da una molecola trovata per terra, ma basterebbe anche l’attitudine a porsi delle domande e ad unire i puntini in modo da non trarne un improbabile scarabocchio. Io vedo, ad esempio, che deve esserci un nesso tra due fattispecie che vengono di solito considerate separatamente: tra la rinuncia da parte dell’UE ad inserire sulla propria Costituzione il richiamo alle origini giudaico-cristiane della vecchia Europa e il golpe compiuto dalla mafia ecclesiastica di San Gallo per esautorare il cane da guardia della dottrina ( “Il pastore tedesco”, come venne definito, a caratteri cubitali, all’atto della sua elezione, sulla prima pagina de ‘Il Manifesto’) e per sostituirlo con certo Bergoglio, quegli che nel prendere possesso dei paramenti del Papa avrebbe assunto su di sé il nome di Francesco, quasi a significare che avrebbe assicurato un’ulteriore copertura ideologica alla “decrescita felice” bandita dai maggiorenti del NWO e avrebbe dialogato con l’Islam, mettendosi sulla scia del “poverello di Assisi” che era andato in Egitto per incontrare il Sultano mentre divampavano le Crociate.

In un caso come nell’altro, non accidentalmente, tali eventi, di una portata straordinaria, non hanno visto il partecipe coinvolgimento dell’opinione pubblica e non hanno neppure alimentato uno straccio di discussione, né al bar né nel salotto della marchesa, ma sono maturati al chiuso delle conventicole domiciliate a Bruxelles e nella penombra del Vaticano raccontata da Dan Brown.

Il vero problema, per chiunque opti per il dialogo in presenza di un conflitto o nella ragionevole presunzione che esso possa aver luogo, consiste nel sincerarsi che anche l’altra parte propenda per la medesima soluzione, ma il rapporto con una dottrina indeformabile, quale quella islamica che permea diverse realtà lontane dal nostro mondo, e che non contempla neppure il minimo compromesso con gli “infedeli” riduce praticamente a zero tale eventualità, enfatizzando per contro (è l’allarme lanciato a più riprese dalla Fallaci e da un convertito quale Allam) il rischio che la mano tesa venga interpretata come il gesto del mendicante che attende la questua e che il malvezzo di tenere aperta la porta equivalga ad una dichiarazione di resa per quanti (come i sauditi, e i loro ricchi partners del Golfo, che vietano la costruzione di chiese nel loro reame mentre finanziano quella della più grande moschea dell’Europa a Forte Antenne, in una posizione dominante rispetto a piazza San Pietro) s’impegnano con tutte le loro forze nel tenerla sbarrata.

L’involontarietà sembra essere, in definitiva, il tratto essenziale delle azioni e delle omissioni che l’Islam – nella sua doppia declinazione, politica e culturale – compie nei confronti dell’Occidente cristiano: sicché, anche la conquista, a sue spese, di territori ulteriori, come quelli strappati di recente, nella regione del Caucaso, agli armeni del Nagorno Karabach dagli azeri (all’indomani delle guerre cecene che hanno messo a dura prova l’apparato militare della Russia di Putin) e la penetrazione, nella direzione del cuore dell’Europa, avvenuta col distacco del Kosovo dalla potestà di Belgrado, vengono confinate nei ragionamenti di più corto respiro che concernono l’altalena degli equilibri internazionali, senza che si abbia alcun riguardo – tanto meno se accompagnato da un po’ di preoccupazione – per il modo in cui, approfittando della manifesta malleabilità della concorrenza, l’Islam si allarghi segnando il passo solo dove, come nello Xinjiang, venga contenuto da un’entità altrettanto irriducibile come il regime di Pechino.

Bisogna, comunque, togliersi dalla testa l’idea che il corridoio caucasico e quello balcanico siano gli unici varchi, sul terreno, attraverso i quali l’Islam, rappresentato da ciò che resta dell’ISIS e delle sue propaggini africane, entra in Europa per sottometterla. C’è, infatti, il cavallo di Troia dell’immigrazione clandestina che viene colpevolmente tollerata, soprattutto in Italia, da una classe politica di emeriti debosciati (la macchina del tempo che si è fermata per riparazioni a Bisanzio) nel cui seno, oltre al sospetto che essa imbarchi, ad ogni tornata, una discreta delegazione di terroristi, alligna l’inconfutabile certezza che da qui a qualche anno ( il ‘2055?, sulla falsariga di Orwell?) quella donna avvolta nel burka, con tre bambini (il più piccolo dei quali stretto al petto, e gli altri due, uno tenuto per mano, e l’altro a bordo di una maestosa carrozzella) che io ho incrociato uscendo di casa si sarà moltiplicata per ‘enne’, trasformando la mia e le nostre città in un’estensione di Torpignattara, dove, entrando, hai sempre la sensazione di esserti dimenticato del passaporto: l’odore del sugo, che una volta debordava dalle finestre intorno a mezzogiorno, è ormai quello, molto più pungente, di paprika e di strafritto, che si potrebbe avvertire, alla stessa ora, capitando nella casbah del Cairo, e qui ti potrebbe anche accadere che, girando l’angolo con la macchina, ti debba fermare perché il passaggio è impedito da un tappeto multicolore di schiene curve, in onore di Allah.

Non so se siano stati intrapresi degli studi approfonditi su quale sia l’incidenza sulle economie dell’Occidente dell’eclettica finanza saudita e araba del Golfo che compra Cristiano Ronaldo con la stessa naturalezza con cui finanziava sottobanco i tagliagole dell’ISIS. Immagino, ad essere ingenui, che non si tratti di poca cosa, nonostante da quelle parti, come persona informata, sia stato mandato per conto di Bruxelles un genio come Giggino D Maio. Rilevo, infatti, come il petrolio, che giustificava la politica aggressiva dell’Occidente verso i Paesi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord, allo scopo di impossessarsene per procurare la linfa vitale al proprio apparato industriale, sia divenuto da vecchia data protagonista e innesco di una nemesi desolante, almeno per chi ancora crede nella fallibilità delle cassandre: quella per effetto dalla quale, a distanza di vari decenni dall’epoca coloniale, i proventi incassati dalla vendita – alle loro condizioni – dell’oro nero, sono stati reinvestiti dai Paesi arabi nell’acquisto delle imprese che se ne servivano per tirare avanti, nonché delle banche e della tecnologia che garantivano la loro competitività sui mercati internazionali. La ruota della Storia nel cambiare verso ci mette dove erano loro sino alla fine del secondo conflitto mondiale, e sembra non esserci a tutt’oggi – forse per la caduta in mani arabe ed islamiche del controllo dei media – la possibilità che l’uomo della strada ricavi dalla vista e dall’apprezzamento della stomachevole opulenza di Dubai un qualche motivo per riflettere su come essa corrisponda (il contrasto speculare tra Yin e Yang) alle ristrettezze endemiche di casa nostra.

Mi ricordo di quando Totò prendeva schiaffi da uno che lo chiamava ‘Pasquale e di quanto rideva, nonostante quello lo tempestasse di botte, per il fatto che non era ‘Pasquale’ e che quindi doveva essersi confuso con qualcun altro. Rimanendo nella dimensione dell’assurdo potremmo concludere – con una trascurabile variazione del testo – che prendiamo molti schiaffi e che ne prenderemo ancora di più in futuro se continueremo a far finta di niente o, addirittura, a dire che sono carezze.

Immagine: https://www.studiobs.biz/

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