La Libia ancora sull'orlo del baratro

La Libia è ancora una volta sull’orlo del baratro, ancora una volta sull’orlo della guerra civile, la terza in pochi anni. Da una parte il Generale Haftar che avanza alla conquista di Tripoli, proseguendo l’assedio della città e tentando la conquista del potere, dall’altra il Governo di Tripoli presieduto dal Presidente Al-Sarraj, riconosciuto almeno sulla carta dalla comunità internazionale. Nei giorni scorsi si sono susseguiti scontri armati e raid aerei, il tavolo sembra ormai preparato per l’ennesimo bagno di sangue ai danni del popolo libico.

La comunità internazionale intanto rimane a guardare, spettatrice non troppo passiva di una situazione difficile e figlia di un certo imperialismo; esclusi i soliti appelli a “cessare le ostilità”, ci si è limitati ad annullare la “conferenza nazionale” prevista quest’anno in vista delle elezioni, facendo intendere fallito quindi, il percorso politico comune che la conferenza di Palermo dello scorso novembre aveva in qualche modo avviato, ed esulando i soliti noti dalle responsabilità storiche e politiche di una situazione esplosiva, creatasi dopo l’assassinio del Colonnello Gheddafi e la successiva distruzione del Paese.

Molti gli attori in gioco, tra questi Trump rimane isolato dalla situazione, attendendo forse l’esito delle ormai imminenti ostilità, la Francia tenta di convincere tutti che l’avanzata di Haftar non è farina del suo sacco - cosa difficile da credere visto che proprio il governo di Parigi è sempre stato, neanche troppo segretamente, un sostenitore di Haftar, e considerata la presenza della Total in Cirenaica, - le monarchie del Golfo e l’Egitto invece appoggiano pubblicamente l’avanzata di Haftar. Quest’ultima questione potrebbe far riflettere intorno alla “neutralità” americana, nella misura in cui dopo Israele e l’Italia, i principali alleati degli U$A nel Mediterraneo sono proprio le monarchie del Golfo, la situazione libica importa il giusto agli “States”, ma una vittoria di Haftar finanziato da Francia, Emirati Arabi e Arabia Saudita significherebbe l’uscita di scena dell’Italia, che invece era stata designata come “partner privilegiato nel Mediterraneo” dagli stessi Stati Uniti, che adesso verosimilmente fanno buon viso a cattivo gioco, in un certo modo vendicandosi forse per il cambio di rotta economico e geopolitico, che ha spinto il nostro paese tra le braccia della Cina.

A parte il popolo libico, l’unica sconfitta in questa intricata rete di rapporti è l’Italia, la quale aveva da subito sostenuto il governo di Al-Sarraj, e dopo le complicazioni dello scorso autunno si era affidata alla “longa manus” americana per far prevalere la linea politica comune, salvaguardando gli interessi nazionali. Data la situazione attuale, è altamente probabile che in questo gioco di piccoli e grandi imperialismi, l’Italia rimanga esclusa dalla Libia, con gravi ripercussioni politiche finanche economiche.

In conclusione, cosa deve farci capire la situazione libica? In primisi ci fa capire ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che i frutti dell’imperialismo sono sempre avvelenati, nel breve o nel lungo periodo poco importa, e soprattutto che l’imposizione di determinati modelli sociali e quindi elettorali, non fa altro che radicalizzare il malessere di un popolo schiacciato, sconfitto, umiliato dall’Occidente imperialista, con le conseguenze che vediamo. In secondo luogo, visto quanto analizzato sopra, è bene che l’Italia guardi altrove, e che ponga fine una volta per tutte al servaggio nei confronti dell’occupante americano, il quale si dimostra sempre difensore dei propri interessi imperialistici, e non certo di quelli italiani. Terza e ultima questione, occhi aperti sulla situazione in sviluppo; una Libia nelle mani di Haftar finanziato con i “petroldollari” sauditi sarebbe una chiara corsia preferenziale per i terroristi islamici, che come sappiamo sono tutti fedelmente wahabiti, quindi in linea con l’Islam tribale di Riad dal quale il compianto Colonnello Muammar Gheddafi metteva in guardia l’intera Europa.


Editoriale

 

Ricostruire l'unità nazionale

di Adriano Tilgher

Siamo alle solite. In Italia siamo troppo occupati ad affrontare temi marginali o impostici da altre nazioni per renderci conto della grave situazione in cui versa la nostra nazione. Purtroppo tutto questo accade perché a nessuno dei cosiddetti politici, né alle istituzioni interessa nulla dell’Italia; basti pensare alla scomparsa in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia, della grande cultura classica ed umanistica, base e fondamento sia del nostro percorso unitario che della nostra profonda identità.

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La Spina nel Fianco

 

L'ethos del cameratismo

1944 il poeta, soldato, (e bisessuale) Robert Graves, (1895 -1985) dà alle stampe il suo romanzo più famoso, "Il vello d'oro”, che parla fra altre cose, della guerra dei sessi nella mitologia Greca (successivamente ereditata dai Romani). Graves dipinge il "litigio" fra Zeus ed Era, più che come una satira sui problemi domestici delle famiglie greche, come un conflitto fra sistemi sociali inconciliabili. Nel descrivere il panteon greco l'autore narra dello scontro fra le divinità femminili dei popoli mediterranei guidate da Madre Gea e gli dei del pantheon maschile, guidati da Zeus arrivati dal nord con gli invasori achei, che si sono fatti largo a spallate nella Grecia arcaica e matriarcale. Ad Olimpia cittadina del Peloponneso occidentale, che ha dato nome alle "Olimpiadi" dove sorgeva il tempio di Gea, più venerato di tutta la Grecia, un paio di millenni prima dell’"era dell’Uomo", pare si sia tenuta una sorta di sacro G20, un super vertice religioso con lo scopo di raggiungere una pacificazione. Da un lato, le diverse manifestazioni della triplice Dea, con i loro riti della fertilità, ed un certo gusto per i sacrifici umani, dall’altro gli dei guerrieri venuti dal nord, che erano usi tenere le donne alla catena, in cielo come in terra. Ma sarà una pace fittizia, la guerra metafisica, non finirà mai, e giunge fino a noi alimentata dal tentativo del nuovo ordine mondiale di uniformare, e quindi annullare ogni diversità di genere.

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