I falchi non volano a Mosca

La recente escalation nel mar d'Azov non fa altro che aggiungere un nuovo capitolo alla triplice strategia del tiro alla fune che Washington gioca con Mosca. Dal triennio 2011-2014 i tre quadranti in cui Mosca e Washington si sono affrontati (Ucraina Orientale,Siria e Iran) hanno tenuto il banco della tensione indotta. Essendo parte imprenscindibile della strategia di contenimento americana (mai finita da quando Frost Kennan spedì il “Long telegram” nel Luglio del 1947) tale tensione è stata tenuta alta provocando Mosca (o lasciandosi provocare da essa) a tempi alterni su questi tre quadranti, aizzando il fuoco con una mano e lasciandolo spengere altrove.

Questo canovaccio è stata la vera cifra della presidenza Trump, che, intrappolata nelle sue proprie parole d'ordine, non ha potuto far di più che esacerbare la questione da sempre aperta.

Le ultime dal fronte ucraino seguono questo copione e non dovrebbero stupire molto l'osservatore attento di cronache internazionali. L'Ucraina si trova infatti nei prossimi mesi a dover tornare sull'equilibrio istituzionale delicato costruito tra il 2014 ed il 2016. Tale equilibrio, necessariamente infido, giacchè le fonti del caos che portarono poi ai fatti di piazza Maidan non si sono disseccate, ha bisogno di un vincolo esterno per sopravvivere. La presidenza Poroshenko, infatti, si è immediatamente arenata su qualsiasi tema di politica interna ed ha quindi bisogno, per succhiare ancora voti alla pancia patriottica ucraina, di tenere alta la tensione, sia dipingendosi come offeso sia offendendo per primo (come testimoniano i bombardamenti nel Donbass effettuati come risposta al blitz russo contro le navi ucraine).

Questa lettura da anche il senso esatto del peso che queste scaramucce possono avere. Le condizioni di stabilità che, ad esempio, ricordammo sul Pensiero Forte all'assassinio di Aleksander Zacharchenko sussitono, sia in termini regionali che in termini internazionali. La forma della crisi ucraina può accogliere il contenuto politico che i vari giocatori gli possono conferire, ma non muta di forma in questo modo. Poroshenko può quindi ben decidere di innalzare la tensione e costringere il paese alla legge marziale per inspessire il suo governo, ma senza immediatamente destabilizzare il quadro generale. Una scelta del genere avrebbe certo ripercussioni (tra cui quella di inacidire il dibattito politico con esiti insondabili qualora altri contendenti oltre la Tymoshenko si offrissero), ma con una scadenza tra qualche mese, quando peraltro le elezioni europee potrebbero svolgere il filo del vestito che l'eurocrazia ha cucito addosso a Kiev.

Ciò che stabilizza realmente la situazione è il volo basso, bassissimo dei falchi moscoviti. Finora il governo di Putin ha tenuto a bada i fautori,a Mosca, di una politica estera che superi il sapiente rintuzzamento. In questo la relativa calma del fronte interno e la pacifica amalgama creatasi con la repubblica crimeana, sancita dalla costruzione del pont di Kerch come sugello ha aiutato, e per ora la strategia moscovita è quella di costruire e rafforzare le sovranità russe (di Mosca e delle repubbliche popolari) al fine di arrivare ad un futuro tavolo diplomatico con più peso politico possibile.

Non è tuttavia escluso che in futuro Mosca voglia dimostrare che le sue polveri non sono bagnate avanzando le linee rosse. Se il Cremlino decidesse di operare in tal senso sarebbe un'ottima occasione per il governo italiano di marcare la differenza con gli esecutivi precedenti e procedere ad uno strappo che metterebbe di sicuro in difficoltà i burocrati di Berlino, Parigi e Bruxelles.

 


Editoriale

 

Ricostruire l'unità nazionale

di Adriano Tilgher

Siamo alle solite. In Italia siamo troppo occupati ad affrontare temi marginali o impostici da altre nazioni per renderci conto della grave situazione in cui versa la nostra nazione. Purtroppo tutto questo accade perché a nessuno dei cosiddetti politici, né alle istituzioni interessa nulla dell’Italia; basti pensare alla scomparsa in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia, della grande cultura classica ed umanistica, base e fondamento sia del nostro percorso unitario che della nostra profonda identità.

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La Spina nel Fianco

 

L'ethos del cameratismo

1944 il poeta, soldato, (e bisessuale) Robert Graves, (1895 -1985) dà alle stampe il suo romanzo più famoso, "Il vello d'oro”, che parla fra altre cose, della guerra dei sessi nella mitologia Greca (successivamente ereditata dai Romani). Graves dipinge il "litigio" fra Zeus ed Era, più che come una satira sui problemi domestici delle famiglie greche, come un conflitto fra sistemi sociali inconciliabili. Nel descrivere il panteon greco l'autore narra dello scontro fra le divinità femminili dei popoli mediterranei guidate da Madre Gea e gli dei del pantheon maschile, guidati da Zeus arrivati dal nord con gli invasori achei, che si sono fatti largo a spallate nella Grecia arcaica e matriarcale. Ad Olimpia cittadina del Peloponneso occidentale, che ha dato nome alle "Olimpiadi" dove sorgeva il tempio di Gea, più venerato di tutta la Grecia, un paio di millenni prima dell’"era dell’Uomo", pare si sia tenuta una sorta di sacro G20, un super vertice religioso con lo scopo di raggiungere una pacificazione. Da un lato, le diverse manifestazioni della triplice Dea, con i loro riti della fertilità, ed un certo gusto per i sacrifici umani, dall’altro gli dei guerrieri venuti dal nord, che erano usi tenere le donne alla catena, in cielo come in terra. Ma sarà una pace fittizia, la guerra metafisica, non finirà mai, e giunge fino a noi alimentata dal tentativo del nuovo ordine mondiale di uniformare, e quindi annullare ogni diversità di genere.

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