Trump, Rohani e le sanzioni all'Iran

Questo 4 Novembre gli Stati Uniti d'America hanno riattivato le sanzioni contro Teheran che la amministrazione Obama aveva costruito e pensato, indi bloccato, a seguito dell'accordo sul nucleare del 2015. La riattivazione delle sanzioni, ben più corpose ed influenti di quelle di qualche mese addietro, porta con se', idealmente, la dismissione del “piano Kerry” che la amministrazione Obama aveva implementato al fine di far rientrare l'Iran nell'ordine mediorientale a maggior coefficiente di ordine che Washington aveva pensato nel 2014.

 La cesura imposta da Trump è non solo ad un concetto di ordine mediorientale concertativo, ma anche al ciclo politico di Rohani in Iran. Hassan Rohani era stato eletto in Iran con il preciso obbiettivo di 1) far rientrare nel concerto diplomatico l'Iran per far valere le sue carte economiche e politiche, e quindi necessariamente rimuovere l'ostacolo della quarantena nucleare e 2) modernizzare le strutture produttive iraniane (soprattutto bancarie e infrastrutturali) per liberalizzare l'economia iraniana e legarsi al ciclo diplomatico sovraesposto. La presidenza pragmatica era stata spinta da una convergenza della borghesia esportatrice iraniana, i ceti intellettuali ed i giovani che volevano un Iran più liberale, più orientato ad una economica di mercato dinamica e “culturalmente” più pronto a questo salto (tramite quindi un allentamento delle ipoteche morali islamiche ecc).

 La decisione di Trump di mettere fine alla parentesi Obama, il quale surrettiziamente aveva dato una mano al ciclo riformista di Rohani con queste aperture di credito, resetta in primo luogo Rohani che ne viene quindi indebolito. Con l'accordo JCPOA infranto e la mandata riformista indebolita anche dalle proteste di questo 2018, la presidenza Rohani sembra avvicinarsi allo stilema dell'”anatra zoppa”, il quale potrebbe peraltro replicarsi anche negli States se Trump dovesse ritrovarsi con un parlamento (e Senato) a maggioranza Democratica.

 L'Unione Europea, che aveva per bocca di Federica Mogherini palesato tutte le sue perplessità, è doppiamente intontita da questa decisione. Da un lato essa potrebbe benissimo sostituirsi agli USA come garante del ritorno nel mondo bene della diplomazia di Teheran, continuando nell'opera di patrocinio esterno del rinnovamento iraniano (il patrocinio esterno è d'altronde una tara storica del mondo persiano, fin da quando la dinastia Qjar chiamò banchieri belgi ed americani e poliziotti svedesi per costruire ministeri del tesoro e forze dell'ordine), ma non va oltre alla reprimenda, peraltro in buona compagnia di Cina e Russia. L'occasione di costruire un fronte compatto su questo tema (pragmatico, perché vale dei miliardi) facendo coagulare l'Europa contro la diplomazia a tenuta stagna statunitense, oltre che essere perfettamente tollerabile in ottica post-borghese (la difesa kalergiana delle prerogative europee contro gli appetiti americani ed asiatici) sarà probabilmente persa. Singolarmente Francia e Germania riusciranno, con ogni probabilità, a difendere i loro interessi in Persia, ma non ad innescare una diplomatizzazione del conflitto economico, lasciando  cicatrizzare la ferita apertasi ormai da quasi due anni con Washington: la quale, intelligentemente, ha esonerato Italia e Grecia dalle sanzioni, in parte per ottenere poi qualcosa in cambio, in parte per anestetizzare la contesa ed evitare ulteriori appoggi ad una iniziativa non più paneuropea ma almeno italofrancese o italotedesca.

In definitiva la diplomazia moltiplica (o divide) le possibilità economiche e politiche degli agglomerati strategici. Lo imparino presto i gialloverdi, e si tengano aperte più porte possibili.


Editoriale

 

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