Statali ingannati dalle false promesse elettorali

Il 23 dicembre 2017 il governo presieduto da Gentiloni pensò di fare un bel regalo di Natale ai circa 240.000 dipendenti dalle pubbliche amministrazioni statali e parastatali, ratificando l’accordo intercorso con alcune organizzazioni sindacali (non tutte) per un contratto che avrebbe stabilito un aumento retributivo. Seguirono diversi passaggi burocratici, tra i quali il consenso a quell’accordo delle rappresentanze aziendali e di comparto dei rispettivi sindacati, ed esso fu sottoscritto formalmente il 12 febbraio. Il governo aveva anche promesso che si sarebbe fatto in tempo ad erogare gli arretrati (pari a più di 300 euro) con la retribuzione del 27 febbraio, quindi una settimana prima delle elezioni politiche. Da tener presente che quel contratto era atteso da ben nove anni, quando gli aumenti furono bloccati per via dell’austerità “europea” dal 2008.

Questa promessa non potette però essere mantenuta, perché mancava un altro passaggio fondamentale, ossia il via libera da parte della Corte dei Conti. La quale, dopo aver esaminato la delibera governativa depositata presso di essa solo il 23 marzo (e questo ritardo è anche significativo delle difficoltà da parte del governo di farsi approvare un accordo che appariva discutibile) ed averne approfondito i contenuti giuridici e finanziari, lo scorso 3 aprile ha espresso un giudizio negativo sull’intero contratto esprimendovi le motivazioni:

non sono previsti differenziazioni in grado di premiare il merito e incentivare la produttività e l’efficienza nel pubblico impiego, stabilendo invece aumenti “lineari” uguali per tutti;

occorre effettuare preliminarmente una valutazione degli effetti della contrattazione in termini di recupero della produttività, perché gli incrementi si applicano esclusivamente alle componenti fisse della retribuzione;

inoltre gli incrementi contrattuali sono superiori rispetto al tasso d’incremento del costo della vita od alla cosiddetta “inflazione programmatica”;

l’accordo in questione ha anche eluso la normativa della legge n. 15/2009 che stabiliva l’obbligo, in sede di contrattazione, della ridefinizione delle componenti variabili della retribuzione, da destinare prevalentemente a finalità realmente incentivanti e premianti.

Insomma, una bocciatura su tutta la linea e quindi la necessità di rinegoziare quell’accordo. Gli statali così sono stati ingannati a fini elettorali, e non lo meritavano perché è da anni che aspettano un rinnovo contrattuale e gli adeguamenti retributivi. Ma l’inganno non l’ha commesso solo il governo: ne sono stati partecipi anche i sindacati, quelli sempre pronti a firmare qualsiasi cosa gli si propone, che anche loro volevano presentarsi ai loro iscritti con un risultato tangibile in mano, dopo aver indirettamente sostenuto per anni i governi dell’”austerità”. Bastava essere solo un poco più attenti nelle formulazioni e nella ripartizione degli incrementi, perché i requisiti richiesti dalla Corte dei Conti erano noti.

Toccherà ora al nuovo governo rinegoziare un contratto che tenga conto delle legittime aspettative dei pubblici dipendenti nell’ambito però dei rilievi della Corte dei Conti i quali mirano – al di là delle disquisizioni giuridiche – a rendere efficiente la pubblica amministrazione nell’interesse dei cittadini e dell’economia nazionale. Argomento, questo, che poco ha interessato al governo dimissionario e a sindacati acquiescenti.

 


Editoriale

 

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