La fine di Renzi

Dev’essere la poltrona. O, meglio, l’ebbrezza da poltrona, che si trasforma in un delirio di onnipotenza, che porta al totale disprezzo del prossimo, chiunque esso sia. E, quel che è più grave, a non comprendere quel che è avvenuto e sta avvenendo. Quello che è accaduto a Matteo Renzi – che non si arrende e si ostina a voler dettare le regole e a imporre nomine, fuori e dentro al Pd, malgrado sia stato sfiduciato a più riprese dal popolo italiano, dal referendum in poi – non è certo una cosa nuova: l’abbiamo vissuta tante volte, con tanti personaggi della politica nostrana. Salgono, salgono, arrivano alla vetta e, dopo qualche mese, si trasformano: perdono qualsiasi briciola di umanità e diventano entità di un altro mondo, al di sopra di tutti e intoccabili.

La caduta, ovviamente, è rovinosa e inaccettabile. Forse è per questo che Renzi – che pure godeva, inizialmente, di credito e simpatia anche negli elettori di centrodestra – oggi è una delle persone più antipatiche agli italiani. Che, lo scorso 4 marzo, glielo hanno detto chiaramente, bastonando sonoramente lui e il suo partito.

Nei pochi anni di governo, Renzi si è distinto, essenzialmente, per atteggiamenti antipatici e arroganti, andando avanti a colpi di fiducia, senza capire che il Paese gli stava voltando le spalle. Sì, perché, mentre lui descriveva un’Italia in crescita e vicina all’uscita dalla crisi, le famiglie avevano sempre più problemi a fare la spesa. E a chi glielo faceva notare, Renzi rispondeva, più o meno, che si trattava di cretinate o di “gufate” e che i dati parlavano chiaro. Com’è andata a finire lo sappiamo tutti: Renzi ha perso il referendum costituzionale, ma non ha fatto quello che aveva annunciato, ossia non si è ritirato dalla scena politica, come aveva promesso avrebbe fatto, in caso di sconfitta.

Non solo: invece di invitare a un sereno ritiro Maria Elena Boschi, che quella riforma aveva scritto, ha continuato a difenderla e l’ha imposta come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Gentiloni. Successivamente, l’ha voluta di nuovo in Parlamento, grazie a un seggio sicuro a Bolzano, per lei che è di Arezzo.

Adesso, malgrado il Pd abbia bruciato milioni di consensi, Renzi si è asserragliato con i fedelissimi al Senato, cercando di dettare regole e linea al partito, da cui ufficialmente si è dimesso come segretario: sembra, davvero, quel giapponese che non aveva capito che la guerra era finita.

Ecco, Matteo Renzi, che dice di voler essere lasciato in pace, ma che non fa niente per lasciare in pace gli altri, dovrebbe capire una cosa: la sua guerra è finita, ha perso. E, se proprio non vuole abbandonare la politica, come dovrebbe fare per coerenza, si prenda almeno un paio di anni sabatici, peraltro ben retribuiti: se ne stia silenzioso in Senato, senza comunicare, senza twittare, senza esternare, perché gli italiani delle sue bugie e delle sue tristi battute da spaccone da bar non ne possono proprio più. 


Editoriale

 

I diritti civili

di Adriano Tilgher

Si fa un gran parlare, in questi tempi, di diritti civili e la mia sensazione è che pochi fra quelli che ne parlano sappiano esattamente cosa siano questi diritti civili, che sul piano della sinistra hanno letteralmente soppiantato i diritti sociali che sono scomparsi dal dibattito politico, nonostante siano totalmente sotto attacco. Guardo raramente e con difficoltà i dibattiti televisivi perché sento solamente banalità per lo più insulse, prive di riscontri reali e soprattutto completamente estranei alla realtà e alla gravità dei problemi che stiamo affrontando come Italiani.

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La Spina nel Fianco

 

Professor Odal

5 marzo 1965, muore al Cairo, Omar Amin, militare, politico, filosofo ed esoterista tedesco naturalizzato egiziano, amico di Renè Guenon e di Savriti Devi. Omar Amin, nasce in Germania a Karbow-Vietlübbe, un piccolo comune del Meclemburgo-Pomerania, il 25 gennaio 1902, con il nome di Johann Jakob von Leers. Studiò nelle università di Kiel, Berlino e Rostock, laureandosi in giurisprudenza. Si dedicò soprattutto a studi storici e linguistici, come la slavistica. Divenne un poliglotta, imparò italiano, russo polacco, ungherese arabo e giapponese; scriveva correntemente in latino, ma anche nello yiddish degli ebrei aschenaziti dell'Est Europa. Ernst Jünger (1895-1998) lo definì “un genio linguistico”. Nel mondo intellettuale tedesco von Leers era noto con l'appellativo, "professor", il professore,  anche in virtù della cattedra universitaria presso l'università di Jena.

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