La Costituzione e il “mito” dei diritti inviolabili

In più di anno dall'entrata in vigore della deliberazione del Consiglio dei Ministri 31 gennaio 2020 sullo “stato di emergenza” di rilievo nazionale abbiamo, in più di un'occasione, invocato la compressione o il non proporzionato bilanciamento dei diritti contemplati dalla Costituzione repubblicana vigente. Ora, la teoria secondo la quale la previsione, da parte del decreto-legge, di misure di contenimento elastiche attuate e modulate dai vari decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore non costituisce un modello contrario al Testo fondamentale, non mi pare convincente.

Infatti, il suo accoglimento implica che il bilanciamento effettivo dei diritti venga lasciato ad una fonte secondaria di produzione del diritto non sottoposta ad alcun controllo preventivo di legittimità fatto salvo l'obbligo di informare i due rami del Parlamento. È arrivato, però, il momento di sollevare il velo di Maya di schopenhaueriana memoria: restituire un'immagine ben lontana da quell'idea di corazza, di trumps (Dworking), di perentorietà e inviolabilità che dei diritti tradizionalmente si ha. Nel costituzionalismo contemporaneo questi non solo sono deboli già nelle loro formulazioni testuali con l'indicazione di limitazioni vaghe e volutamente generiche, ma sono anche agevolmente superabili sia in sede legislativa (e amministrativa), sia in sede giurisdizionale in vista della protezione di altri diritti o interessi pubblici. Detto diversamente, l'indefinita bilanciabilità dei diritti (sul punto si rinvia alle considerazioni di Aleinikoff e Webber) li rende fragili e sottoposti alla volontà politica di chi in un dato momento storico detiene il potere politico. I diritti, allora, non possono trovare il loro fondamento né nella norma agendi (la legge, per dirla con Giuseppe Bettiol, è causa formale, non sostanziale del diritto), né nella soggettività giuridica formale (il diritto di avere diritti), bensì unicamente nella giuridicità, ossia nella conformità alla loro fondazione morale che trova nell'essere il suo presupposto.

Non si può, allora, condividere il pensiero di Hans Kelsen (1881-1973) che nega la derivazione del dover essere dall'essere, in quanto il suo ragionamento presuppone una visione meccanicistica di ciò che è e non prende invece in considerazione il piano dell'essenza. E quand'anche si volesse negare questo dato si cadrebbe in contraddizione: bisognerebbe cioè dimostrare che l'uomo non ha una sua natura che lo spinge verso un determinato fine e che gli è indifferente essere ciò che è oppure un'altra cosa. Come scrisse Tommaso d'Aquino (1224-1275): «Non videtur esse lex quae iusta non fuerit».


Editoriale

 

I diritti civili

di Adriano Tilgher

Si fa un gran parlare, in questi tempi, di diritti civili e la mia sensazione è che pochi fra quelli che ne parlano sappiano esattamente cosa siano questi diritti civili, che sul piano della sinistra hanno letteralmente soppiantato i diritti sociali che sono scomparsi dal dibattito politico, nonostante siano totalmente sotto attacco. Guardo raramente e con difficoltà i dibattiti televisivi perché sento solamente banalità per lo più insulse, prive di riscontri reali e soprattutto completamente estranei alla realtà e alla gravità dei problemi che stiamo affrontando come Italiani.

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La Spina nel Fianco

 

Professor Odal

5 marzo 1965, muore al Cairo, Omar Amin, militare, politico, filosofo ed esoterista tedesco naturalizzato egiziano, amico di Renè Guenon e di Savriti Devi. Omar Amin, nasce in Germania a Karbow-Vietlübbe, un piccolo comune del Meclemburgo-Pomerania, il 25 gennaio 1902, con il nome di Johann Jakob von Leers. Studiò nelle università di Kiel, Berlino e Rostock, laureandosi in giurisprudenza. Si dedicò soprattutto a studi storici e linguistici, come la slavistica. Divenne un poliglotta, imparò italiano, russo polacco, ungherese arabo e giapponese; scriveva correntemente in latino, ma anche nello yiddish degli ebrei aschenaziti dell'Est Europa. Ernst Jünger (1895-1998) lo definì “un genio linguistico”. Nel mondo intellettuale tedesco von Leers era noto con l'appellativo, "professor", il professore,  anche in virtù della cattedra universitaria presso l'università di Jena.

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