Le salme dei Savoia

Le salme dei Savoia in Italia. Bentornati, nonostante tutto.

Siamo persuasi che solo una piccolissima minoranza di connazionali fosse a conoscenza che Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d’Italia per 46 anni, e sua moglie, l’amatissima Regina Elena erano sepolti in terra straniera, ad Alessandia d’Egitto “sciaboletta”, come lo chiamavano per la bassa statura, ed a Montpellier la regina, che a corte qualcuno chiamava spregiativamente “la pastora” per le origini montenegrine. Adesso, a sorpresa ed a fari spenti, dopo settant’anni dalla morte in esilio per lui, sessantacinque per lei, tornano in patria. Non verranno sepolti al Pantheon, come era tradizione per i sovrani d’Italia, ma nel più defilato Piemonte, in una cappella del Santuario della Madonna del Pilone di Vicoforte Mondovì.

Non è una scelta casuale: lo splendido complesso monumentale monregalese fu voluto fortemente dai Savoia nei secoli XVII e XVIII; suo finanziatore fu Carlo Emanuele I cui è dedicata la bellissima piazza che prospetta sulla chiesa dalla cupola ellittica più grande del mondo, di fronte alla scenografica “palazzata” con i portici settecenteschi. Maria Gabriella Savoia, figlia di Umberto II, il re di maggio morto in esilio nel 1983, ha agito nel più assoluto riserbo, contro la stessa volontà del resto della casata. Vittorio Emanuele e i monarchici italiani hanno sempre vincolato il rimpatrio delle salme alla sepoltura ufficiale al Pantheon di Roma. Noi crediamo invece che bene abbia fatto la principessa, con l’aiuto discreto e determinante del Quirinale, a riportare in Patria i resti dei suoi nonni.

La storia d’Italia fu per quasi un secolo la vicenda di un Regno la cui dinastia, i Savoia franco-piemontesi, conseguì l’unità nazionale. Vittorio Emanuele III fu comandante militare attivo e presente nella I guerra mondiale e la Regina Elena si fece amare dagli italiani con la sua partecipazione in prima linea ai soccorsi dopo il terremoto del 1908 che distrusse Messina e Reggio Calabria. Più discutibile fu l’attitudine della Corona durante la tragedia della II guerra mondiale, sino all’ingloriosa pagina dell’8 settembre 1943, l’armistizio con gli angloamericani e quel tremendo annuncio successivo: la guerra continua. Continuò, con un drammatico cambio di campo in presenza degli eserciti alleati sbarcati in Sicilia e delle truppe tedesche divenute nemiche.

Il seguito fu il dramma nazionale di cui ancora portiamo ferite e conseguenze: la guerra civile, la fuga di Pescara della famiglia reale, l’esercito e la nazione intera lasciata senza un comando, sino al referendum perduto dalla monarchia, caratterizzato dai brogli e da un clima di violenza alimentato dai comunisti in armi. Vittorio Emanuele abdicò a favore del figlio Umberto, già luogotenente del regno e dovette rassegnarsi all’esilio. Morì in Egitto un anno dopo, sua moglie gli sopravvisse alcuni anni nel Sud della Francia, dove per decenni la sua tomba è stata oggetto della presenza costante degli italiani di sentimenti monarchici.

Le ferite della storia sono troppo profonde nell’Italia immemore, troppo grande il trauma degli anni della guerra e del dopoguerra. Tuttavia, occorre ricostruire il senso della Patria, la continuità della Nazione. Comunque la si pensi sulla dinastia, sul Risorgimento, sulle vicende terribili del Novecento italiano, è un bene che tornino a casa coloro che per 46 anni furono il simbolo della nostra nazione. Non sappiamo se il Pantheon sarà mai il destino finale delle loro spoglie, ma staranno assai bene nella terra degli avi, nel Santuario in mattoni rossi nel cuore di quel vecchio Piemonte su cui i Savoia regnarono per secoli.

L’Italia ha dimenticato se stessa; in grande maggioranza non sa neppure chi furono Elena e Vittorio. I Savoia ebbero colpe storiche nella tragedia che travolse tutti e costò loro trono e damnatio memoriae. A noi resta quella che Galli della Loggia definì “la morte della Patria”. Tra i mattoni della Madonna del Pilone, sotto la cupola mirabile di Francesco Gallo, genio barocco, tentiamo di ricomporre un frammento di memoria comune. Un mattone per ricucire ferite antiche, un gesto di pietà patria e di umano rispetto per chi, nel bene e nel male e nonostante tutto, fu il volto della Patria. Riposino in pace Elena e Vittorio; rinasca, se possibile, la Nazione che morì.


Editoriale

 

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