L’UE e la globalizzazione: trent’anni di puro vuoto

«Parole, parole…» Mina raccontava così una storia d’amore che si trascinava vuota e senza passione nella primavera 1972. Un leitmotiv preso a prestito, a dire il vero, dal «Words!, Words!, Words!» col quale Amleto descriveva a Polonio un libro senza contenuto, privo di concretezza che sfogliava annoiato quando, al secondo atto, entrava in scena.

Un amore spento, una lettura noiosa. É ciò che l’Ue sta rappresentando per i Paesi più colpiti dalla pandemia in corso. Di fronte a questa crisi le divisioni, i burocratismi, le inefficienze di Bruxelles hanno mostrato il vero volto dell’Europa: un’eterna Arcadia nella quale seducenti versi contano più delle gioie e degli affanni con cui ci incalza la vita. Da trent’anni l’elefantiaca accozzaglia di tecnocrati mette perennemente in scena un balletto verbale, in cui – per dirla con Claudio Magris – «le parole fluttuano, ondeggiano si gonfiano e svaporano come bolle di sapone, trapassano l’una nell’altra come figure di danza, impalpabili come un velo che tuttavia cela impenetrabile la realtà e impedisce di vedere cosa c’è dietro o illude che dietro ci sia qualcosa, mentre talora non c’è nulla».

Le riunioni dell’Eurogruppo eccellono in questo “spumeggiare evanescente”, in questa cortina di fumo senza arrosto. Nessuna risposta concreta è stata fornita alla tragedia sanitaria deflagrata e ancora in atto, nessun provvedimento utile sarà tempestivamente varato. Il motivo di questo mancato appuntamento con la Storia non deve stupire, poiché rappresenta l’inevitabile punto di arrivo per l’Europa realizzata e impostaci in questi trent’anni di globalizzazione.

L’Ue è divenuta sempre più un consesso di oligarchi che si sono autonominati in base al censo e alla classe sociale: la distanza tra il Parlamento e il Consiglio è cresciuta a dismisura e nettamente in favore del secondo che ha svuotato il primo. Il principio di rappresentanza è stato soppiantato dal verbo di un’elite affaristico-finanziaria che – come rilevato da Noam Chomsky – «in nome della globalizzazione dei mercati aspira a trasformare il mondo in un’immensa “fabbrica di profitti”, a beneficio di una ristretta cerchia di eletti».

É stato il neoliberismo economico affermatosi in questi anni e non le tornate elettorali europee a selezionare le classi dirigenti. Il potere ha cessato da tempo di risiedere nelle aule fisiche dei governi – che siano nazionali o europei non v’è più differenza – ma in un Deep State la cui Costituzione contempla solo due articoli: «La nostra è una società fondata sul profitto» il primo; «Tutti gli uomini sono uguali, ma i ricchi sono più uguali degli altri» recita il secondo, mutuato dalla Fattoria degli animali di George Orwell.

D’altra parte la liberalizzazione dei movimenti di capitali è un’arma straordinaria contro il contratto sociale di rousseauiana memoria. Può essere usata con estrema efficacia per rendere vano ogni sforzo dei poteri pubblici di promuovere delle misure sociali come quelle che servirebbero proprio ora. Ne scrisse nel 1998 lo stesso Chomsky su Le Monde Diplomatique: «Se uno Stato cerca di stimolare la propria economia o di aumentare la propria spesa sanitaria, questo comportamento può essere prontamente punito con la fuga dei capitali. É la mobilità finanziaria che ha fatto nascere […] un “Senato virtuale”, fatto di manager a cui basta un semplice trasferimento di fondi per decidere in realtà della politica sociale ed economica».

Come siamo arrivati a tutto questo?  Con la deregulation di Ronald Reagan, certo. Con le riforme neo-liberiste di Margaret Thatcher, senz’altro. Con la globalizzazione realizzata dalle multinazionali che ha devastato i Paesi del Sud del mondo e demolito lo Stato sociale in quelli del Nord, non c’è dubbio.

Ma questi sono effetti e non cause della situazione che stiamo vivendo, frutto di un equivoco molto più profondo: le democrazie rappresentative hanno come presupposto del loro funzionamento una costante opera di selezione – a livello di società civile – dei bisogni materiali e spirituali della collettività, degli ideali che una comunità persegue e del personale politico che la rappresenta.

Laddove questo meccanismo di selezione si inceppa, la democrazia rappresentativa – nazionale o sovranazionale – non funziona più e l’organizzazione politica regredisce a forme primitive, quelle di un rapporto diretto fra i capi e le masse: lo sviluppo del capitalismo e l’affermarsi della mentalità economicistica hanno veicolato modelli di vita collettiva fondati su agglomerazioni orizzontali di individui provvisorie, le quali hanno determinato l’estensione dei fenomeni di massa su una specie di struttura oligarchica dei rapporti “produttori-consumatori”.

Sono stati tali modelli ad emarginare i processi di selezione di cui si è detto. Perciò, l’affermarsi della società dei fenomeni di massa è andato di pari passo con l’esaurirsi della democrazia rappresentativa e l’affermarsi di un’organizzazione politica come semplice braccio esecutivo dei bisogni e dell’organizzazione economica, mero strumento di ratifica delle decisioni economiche prese in centri decisionali esterni all’ordine politico. Fuori dai Parlamenti, dunque, il potere –economico, non più politico – dalle capitali dei Paesi è confluito nel capitale della finanza. 

Il risultato è stato quello di una mutazione dell’economia politica in una transeconomia della speculazione che non ha più niente di economico né di politico. Essa non rappresenta più nemmeno un plusvalore, «è l’estasi del valore, senza riferimento né alla produzione, né alle sue condizioni reali. É la forma pura e vuota, […] estetica e delirante dell’economia politica». Lo scriveva Jean Baudrillard in La trasparenza del male utilizzando aggettivi che calzano a pennello per descrivere la vacuità dell’Ue di oggi. E lo scriveva, non a caso, proprio trent’anni fa.


Editoriale

 

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