Utilizzare il fondo delle liquidazioni sottratto alle imprese

 

Utilizzare il fondo delle liquidazioni sottratto alle imprese

In questa crisi economica derivante dall’epidemia, e dalle misure cervellotiche adottate dal governo, si sta discutendo – e manifestando per le piazze – sui cosiddetti “ristori”, ossia i risarcimenti finanziari richiesti dalle imprese a compensazione dei danni provocati dalle chiusure delle loro attività disposte d’autorità. Ovviamente la discussione verte intorno all’ammontare necessario per questi risarcimenti e la disponibilità delle risorse finanziarie necessarie, cosa sempre assai complicata.

Eppure, per molte aziende questo problema sarebbe in parte risolto se il governo si decidesse a sospendere una norma del 1996 che allora fece molto discutere e che attualmente appare dimenticata.

Con la legge finanziaria n. 296 del 1996 (governo Prodi), dal 1° gennaio 2007 le imprese private con oltre 50 dipendenti sono obbligate a versare all’INPS l’ammontare da accantonare ogni anno per la liquidazione dei propri dipendenti, il cosiddetto “trattamento di fine rapporto”. Tale norma fu approvata ipocritamente per indurre i lavoratori a trasferire quell’accantonamento annuale alla propria posizione nel Fondo pensione negoziale di categoria al fine d’incrementare la previdenza complementare e quindi la possibilità di avere un’integrazione alla pensione più elevata: ma doveva esserci il loro consenso. In caso contrario, quei fondi avrebbero dovuti essere conferiti dal datore di lavoro all’INPS.

Ci sarebbe da obiettare sul fatto che in questo modo i lavoratori si pagano la loro integrazione pensionistica con i propri risparmi di lavoro: ricordiamo che un tempo la liquidazione veniva definita come un “risparmio forzoso” da utilizzare nel periodo d’inattività lavorativa o per la vecchiaia in quanto di fatto veniva sottratta alla retribuzione mensile. Dimostrazione che la carenza dello Stato per assicurare una rendita pensionistica adeguata agli anni di lavoro svolti viene accollata, tramite l’ulteriore contribuzione alla previdenza complementare, ai singoli lavoratori e, per la quota di loro competenza, ai datori di lavoro.

Ma questo è solo un aspetto della questione. 

Poiché in realtà solo una minoranza di lavoratori ha aderito a questa decisione, i datori di lavoro sono obbligati ogni anno a versare all’INPS, allo stesso titolo giuridico dei contributi previdenziali obbligatori, la percentuale sulla retribuzione dei propri dipendenti corrispondente al trattamento di fine rapporto che – secondo l’art. 2120 del Codice Civile (riformato in peius nel 1982 rispetto all’originaria definizione del Codice civile fascista del 1942) – corrisponde al 13,5% della retribuzione lorda annua.

In passato, tutti gli economisti avevano considerato il fondo che si veniva così costituito con il passare degli anni ad una forma di “autofinanziamento” dell’azienda: infatti, gli ammontari accantonati venivano posti al passivo, quindi a detrazione dell’imponibile, ed erano a costo zero, in quanto non si dovevano pagare gli interessi salvo la rivalutazione finale al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Ciò era anche favorito dal fatto che statisticamente la percentuale di dimissioni o licenziamenti annuali (il cosiddetto “turn-over”) è assai bassa, o addirittura assente: l’impresa poteva quindi utilizzare pressoché tutto quell’accantonamento per autofinanziarsi.

Evidentemente, si trattava di un serbatoio finanziario molto ingente che aveva attirato l’attenzione del governo di sinistra guidato da Prodi il quale quindi ha deciso di utilizzarlo per finanziare indirettamente l’INPS. Quei versamenti sarebbero stati continui e cospicui, gli utilizzi assai minori (equivalenti circa al 3% annuo) e per di più,  al momento dell’erogazione al lavoratore, deve essere il datore di lavoro ad anticipare la somma (che non ha potuto accantonare e quindi potrebbe non avere disponibile) addebitandola in seguito ai contributi che dovrà versare!

Il centro studi “Itinerari Previdenziali” ha analizzato questa situazione e ha calcolato che dal 2007 al 2019 all’INPS sono affluiti circa 140 miliardi “sottratti alle imprese italiane”.

E’ evidente come in questa situazione di crisi, quando ci si arrabatta per cercare 5 o 10 miliardi da distribuire alle imprese in crisi, questi soldi potrebbero essere utili: già basterebbe esonerare almeno per un paio di anni le imprese dai versamenti all’INPS per dar loro un poco di respiro. Senza contare che questi risparmi servirebbero anche alle imprese “sane” per effettuare innovazioni tecniche, necessarie specie ora che si punta alla massima trasformazione in lavoro “agile” a domicilio.

Tutto ciò ci induce a tre considerazioni:

  • la capacità legislativa in campo sociale ed economico del regime fascista;
  • la volontà accaparratrice dei governi dei mezzi finanziari della produzione sia con le tasse sia con i contributi, compreso il t.f.r.;
  • l’incapacità o la mancanza di volontà d’intervenire a modificare normative penalizzanti neanche in tempi di crisi.
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