Il Recovery Plan come alibi per coprire la crisi

Il Recovery Plan come alibi per coprire la crisi

Tutta l’attenzione dei media è concentrata sulla presunta emergenza, che avrebbe motivato il cambio di governo, dell’elaborazione del programma degli investimenti italiani da sottoporre alla Commissione Europea per avere il famoso prestito dei 209 miliardi chiamato “Recovery plan”, denominazione che vuol dire “programmi per la ripresa” post-epidemia. Il che è certamente vero, però si tratta d’interventi che cominceranno ad attuarsi – se va bene – alla fine di quest’anno, con anticipi sulla somma globale che verrà corrisposta solo in relazione agli “stati di avanzamento” dei programmi e delle riforme proposte.

L’attenzione riservata a questa questione fa però dimenticare emergenze e scadenze molto più pressanti che vogliamo qui sinteticamente ricordare. Al Ministero dello Sviluppo Economico, affidato forse volutamente al leghista Giorgetti, sono aperti da mesi quelli si chiamano “tavoli”, ossia incontri

triangolari di confronto tra ministero, parte datoriale e sindacati sulle crisi produttive di molte aziende che potrebbero cessare definitivamente o tutta la produzione o parte di essa e licenziare i loro dipendenti, che sono un centinaio. Le crisi riguardano molte medie aziende, ma ricordiamo che sono ancora pendenti quelle più grosse e note, quali l’ILVA di Taranto, la nuova Alitalia denominata ITA e la liquidazione di quella vecchia, le Acciaierie di Terni e quella di Piombino, Mercatone Uno: un totale di 32.000 dipendenti coinvolti, solo per contare queste. La questione poi non è solo quella occupazionale, visto che si tratta per lo più d’imprese strategiche che l’Italia perderebbe.

Vi è poi la questione dell’industria automobilistica che è passata sotto la gestione francese di “STELLANTIS” la quale ha già messo in cassa integrazione i 7.200 dipendenti dello stabilimento di Melfi in via temporanea per una “ristrutturazione produttiva”: vedremo l’esito finale. Da parte sua, la EXOR di Elkann/Agnelli avrebbe intenzione di cedere la fabbrica di veicoli commerciali “IVECO” al gruppo cinese “FAW”. La questione è rilevante non solo perché sarebbe un altro pezzo d’industria italiana ceduta all’estero (e a questo proposito i sindacati hanno unitariamente, dalla Cgil all’Ugl, emesso un comunicato in cui – anche con riferimento alla vicenda di “Stellantis”– hanno affermato: “Purtroppo le aziende che hanno profonde radici nel tessuto industriale ed economico del nostro Paese e che rappresentano un’eccellenza in settori strategici come la mobilità e le motorizzazioni, sono oggetto sempre più spesso di acquisizioni straniere”) ma perché l’IVECO non produce solo veicoli commerciali. Infatti costruisce e vende anche all’estero apprezzati veicoli militari (denominati Freccia, Centauro, Puma, Dardo, Ariete) e l’ipotesi che questo settore strategico possa essere ceduto alla Cina ha provocato molta preoccupazione in ambienti “sensibili” di cui si è fatto interprete il sen. Adolfo Urso il quale, anche nella sua qualità di vicepresidente del Comitato per la sicurezza (COPASIR), ha scritto: “ IVECO rappresenta un’importante realtà del sistema industriale italiano e in particolare per il settore strategico della difesa nazionale: appare necessario un immediato intervento al fine di evitare la cessione di tale società a gruppi stranieri e si chiede al governo di ricorrere alla golden power al fine di tutelare un interesse strategico.”

Il neoministro Giorgetti avrà quindi molte gatte da pelare, come suol dirsi: e forse la sua nomina è stata fatta appositamente non tanto per attuare uno sviluppo che al momento non c’è ma piuttosto per metterlo alla prova nella risoluzione di tante vertenze delicate. A condizione poi che sia il ministro delle finanze sia la vigilante Commissione Europea consentano salvataggi e nazionalizzazioni a carico della spesa pubblica!

Non dimentichiamo infine la grave situazione occupazionale generale, che si aggiunge a quella sopra esposta e che ha fatto registrare nel 2020 l’aumento di 442.000 persone definitivamente disoccupate insieme a ben 306.892.434 ore di cassa integrazione autorizzate nelle sue varie forme. Esse corrispondono, considerate le ore lavorative medie mensili, a ben 1.918.000 lavoratori che di fatto sono senza lavoro. E ve ne sono altri, di quantità impossibile da quantificare, che continuano a lavorare ma potrebbero essere licenziati ad aprile quando finirà il blocco dei licenziamenti stabiliti dai recenti decreti fino al 31 marzo.

Quindi il quadro occupazionale, tra crisi in atto, alienazioni, cassa integrazione, licenziamenti è veramente drammatico.

Ma vi è anche il capitolo pensioni. A fine anno vanno in scadenza tutti i correttivi alla famosa riforma Fornero, consistenti in “quota 100”, “Ape sociale”, “Opzione donna”: tutte norme che facilitavano il pensionamento a determinate condizioni. Senza ulteriori interventi correttivi, si tornerebbe ad applicare la riforma Fornero che prevede il pensionamento per tutti a 67 anni e mezzo. Se basta, perché un “Libro verde sull’invecchiamento della popolazione” predisposto qualche tempo fa dalla Commissione Europea indica per l’Italia lo spostamento a 71 anni dell’età di pensionamento, in relazione alla durata della vita media registrata nel nostro Paese che notoriamente è (o era, prima del Covid!) più lunga. Ma l’eventuale attuazione di questa norma provocherebbe ulteriori problemi non solo alle persone che dovrebbero attendere altri anni prima di godersi il riposo dopo decenni di attività lavorativa ma anche alle imprese che non potrebbero contare sul pensionamento anticipato per ridurre il numero dei loro dipendenti; e ai giovani che si troverebbero ancora senza lavoro. In altri termini, si bloccherebbe quello che si chiama “turn over”, ricambio degli occupati, con l’ulteriore problema di continuare ad avere in servizio molti lavoratori anziani che certamente non hanno le capacità fisiche e intellettuali dei giovani formatisi con tecnologia e informatica aggiornate.

In conclusione, appare evidente da questa sintetica rassegna quali siano gli immani problemi che il nuovo governo dovrà affrontare ma che ci sembra vengano sottaciuti attirando l’attenzione solo sul fantomatico “recovery plan.

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