Ignorato dall’Europa il ruolo dei sindacati

 

Ignorato dall’Europa il ruolo dei sindacati

Nei numeri precedenti, abbiamo esposto la totale assenza di confronto o – meglio ancora – di “concertazione” sugli argomenti relativi al lavoro, all’occupazione, all’economia nazionale, al fisco, alla previdenza da parte del Governo Conte con le cosiddette “Parti Sociali”, nonostante il formale incontro con i sindacati e le associazioni datoriali avuto nel corso della rappresentazione propagandistica denominata “Stati Generali”. Eppure, proprio il nuovo presidente della Confindustria – Carlo Bonomi – aveva parlato più volte della necessità di un “grande patto tra governo, sindacati e Confindustria” per poter riavviare l’economia nazionale dopo la crisi dovuta al Covid-19.

Ma, ovviamente, nulla è successo dopo il “salotto” di Villa Pamphili.

Il fatto è che in realtà questo governo è molto dipendente dall’Unione Europea, come dimostrano anche le ripetute pressioni di Angela Merkel che sarà la presidente di turno nel cruciale secondo semestre di quest’anno, quello che dovrebbe affrontare la crisi economica per evitare che sprofondi ancor di più: e non sembra che nei suoi programmi ci sia la volontà di fare qualsiasi “patto” impegnativo.

Eppure, i sindacati più influenti, ossia la cosiddetta “Triplice”, non lasciano passare giorno senza esaltare l’Europa, chiedere di accettare i prestiti che “generosamente” ci offrono (prestiti, con condizioni, non stanziamenti a fondo perduto per la situazione eccezionale), accettando supinamente di apprendere le notizie relative alla cassa integrazione, ai licenziamenti, alle crisi delle grandi aziende, agli interventi settoriali, al sistema previdenziale leggendole sui giornali o dai notiziari televisivi.

Questa è oggi la situazione in Italia: i sindacati (ma anche la Confindustria), che in passato erano parte attiva della politica economica e sociale, sono considerati solo degli spettatori delle decisioni che li riguardano per le funzioni che svolgono, assunte dal governo non si sa in quale sede e con quali interlocutori.

Essi fanno fatica a comprendere questo comportamento e anche le loro proteste sono assai flebili. Tuttavia si devono convincere che, oltre alla loro attuale indubitabile debolezza (dovuta, non tanto all’organizzazione che rimane consistente, ma alla scomparsa di quella forte e precisa visione ideologica che un tempo avevano), questa indifferenza da parte del governo deriva proprio dall’impostazione culturale che da molti anni permea l’Unione Europea.

Fino all’inizio della decade del 1990, vi era – anche per impulso del presidente socialista della Commissione Europea, il francese Jacques Delors – una certa attenzione per il cosiddetto “dialogo sociale”: ma poi avvenne un evento che dette una svolta decisiva all’impostazione della politica europea. Nel 1995 fu fondato il “WTO”, l’Organizzazione mondiale del commercio, basato solo su criteri mercantilistici, quello che Giulio Tremonti definisce il “mercatismo”. L’unica visione è quella di tutelare il libero commercio mondiale senza tener conto delle profonde diversità esistenti tra i diversi Paesi in materia di attività sindacale, sicurezza sul lavoro, politica sociale, politica fiscale, tutela ambientale che incidono sul costo dei prodotti. Questo fatto ha dato origine a due fenomeni che incidono sulla tutela del lavoro e quindi sul ruolo del sindacato: la diminuzione dei diritti, degli obblighi e delle retribuzioni per abbassare l’incidenza del costo del lavoro sul prodotto finito; e la delocalizzazione delle aziende, per spostarle nei Paesi in cui tutto ciò non c’è e quindi il prodotto costa meno.

L’Unione Europea non solo ha accettato supinamente di far parte con i suoi Stati membri al WTO ma ha anche introdotto questa metodologia al suo interno, cosicché anziché essere veramente un “mercato unico” con altrettante uniche regolamentazioni in materia di lavoro, ha introdotto al suo interno la concorrenza sui costi, e non sulla qualità, lasciando liberi i Paesi membri di regolarsi come meglio credono. E quindi anche la delocalizzazione è avvenuta all’interno dell’Unione Europea: non solo, ma si è consentita anche la folle politica dell’immigrazione non qualificata che ha abbassato ulteriormente le qualità del lavoro.

In questo quadro, i sindacati non hanno alcun ruolo. Premesso che le decisioni fondamentali ormai le prende l’Unione Europea (pensiamo alle pensioni, alla stabilità finanziaria, ai tagli alla spesa pubblica, al libero commercio senza vincoli), domandiamo se per caso è possibile ai sindacati – e al loro coordinamento europeo, la CES (Confederazione Europea dei Sindacati) – interloquire e magari fare qualche accordo con la presidente della Commissione Europa, la signora van der Layden, o con il signor Michel presidente del Consiglio degli Stati? Oppure, se qualche delibera del Comitato Economico e Sociale in cui sono rappresentati, anche se meramente “consultiva”, sia stata mai presa in considerazione? Oggi, chi domina l’Unione Europea è la Banca Centrale Europea e i commissari preposti alla politica economica: qualcuno ha mai sentito parlare del lussemburghese sig. Nicolas Schmit, preposto al dipartimento del lavoro e dei diritti sociali? Qualcuno sa se la Commissione Europea ha emanato qualche direttiva per migliorare le condizioni di lavoro, o abbia censurato i Paesi in cui ci sono condizioni peggiori?

Per la verità, l’influenza del “mercatismo” ha colpito anche un altro organo internazionale che ha  praticamente cessato di operare, l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro). Creato negli anni venti del secolo scorso insieme alla Società delle Nazioni aveva la finalità di elaborare normative sul lavoro che in effetti hanno portato a costruire la “socialità” in Europa, a differenza di tutte le altre aree del mondo: e l’Italia, allora governata dal Fascismo, contribuì notevolmente alla sua attività.

Tutto ciò i sindacati ligi al sistema non lo denunciano e non lo combattono: da un lato, hanno il timore reverenziale di apparire “antieuropei” e indirettamente di rafforzare le polemiche sovraniste; dall’altro, sono stati accontentati con i proventi derivanti dallo svolgimento di servizi che lo Stato avrebbe potuto esercitare direttamente, quali il Patronato per la previdenza e l’assistenza sociale e i Centri di assistenza fiscale, per tutto quello che riguarda denunce dei redditi e simili.

In altri termini, la spinta sociale che oltre un secolo fa aveva portato i sindacati (e, specularmente, le associazioni datoriali) ad essere parte influente e spesso determinante nelle politiche sociali dello Stato tanto da arrivare in Italia alla sua istituzionalizzazione con il corporativismo, è ormai cessata: ma la responsabilità maggiore ce l’ha questa Unione Europea, divenuta solo il braccio esecutore del libero commercio mondiale e della finanza. Il lavoro – dipendente o imprenditoriale – non conta.

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