C’è poca Italia in “Stellantis”

 

C’è poca Italia in “Stellantis”

Il 4 gennaio i media hanno dato la notizia dell’avvenuta ratifica, da parte delle rispettive assemblee degli azionisti, della fusione tra le due finanziarie dell’industria automobilistica mondiale FCA (FIAT e Chrysler) e PSA (Peugeot), facendo così nascere un conglomerato produttivo dalle dimensioni notevoli – 15 marchi prodotti, tra cui le italiane FIAT e ALFA ROMEO; 9 milioni di veicoli prodotti nei vari stabilimenti; 400.000 addetti; 170 miliardi di ricavi – che si chiamerà “STELLANTIS”.  La stampa italiana, in considerazione della presenza della FCA, ex FIAT, ha esultato per la definitiva realizzazione di questa grande associazione che ha superato anche la verifica dell’Unione Europea su presunti limiti alla libera concorrenza che avrebbe potuto apportare: ma questo non sembra proprio quel “regalo” che la Befana sembrerebbe aver portato all’economia nazionale e in particolare ai lavoratori dell’automobile, i metalmeccanici italiani.

Infatti questa fusione era inizialmente stata concepita come acquisizione da parte della FCA della PSA: ma, essendoci in questa una partecipazione dello Stato francese (Paese che si guarda bene di liquidare le partecipazioni statali!), sono stati posti tanti freni e condizioni in modo tale che anziché di acquisizione si parlasse di fusione alla pari. Pari peraltro che appare certamente tale dal punto di vista formale ma che non lo è in modo sostanziale, perché mentre a John Elkann è stata attribuita la carica di presidente del consiglio di amministrazione, la più decisiva e operativa carica di amministratore delegato (il “chief executive officer”, tipico del nuovo capitalismo finanziario) è stata assegnata a Carlos Tavares, attuale presidente del consiglio di amministrazione del Gruppo PSA e – pur essendo portoghese di nascita – strettamente legato all’industria automobilistica francese prima nella “Renault” e ora nella “PSA”, tutte imprese in cui lo Stato francese è attivamente presente. Eppure, la FCA è il primo azionista con il 14,4% mentre la famiglia Peugeot ha il 7,2% e lo Stato francese il 6,2% e la somma delle loro partecipazioni è inferiore a quella della FCA. A questo proposito è bene citare la dichiarazione del Ministro francese dell’economia, Bruno Le Maire: “Lo Stato francese, azionista di PSA, resterà particolarmente vigile sulla tutela dell’apparato industriale in Francia”.

Da segnalare anche che nel consiglio di amministrazione, composto da undici membri, fanno parte due persone che dovrebbero rappresentare i lavoratori dipendenti dalle loro fabbriche, e ciò è stato visto con soddisfazione da parte di alcuni commentatori in relazione alle istanze da tempo espresse per realizzare anche in Italia istituti di partecipazione. Ma chi sono questi rappresentanti? Mentre la parte francese ha nominato Jacques de Saint-Exupery (forse parente del noto autore de “Il piccolo principe”) che era stato eletto dal Comitato Sindacale Aziendale della Peugeot, la FCA ha nominato tale Fiona Claire Cicconi senza consultare i lavoratori italiani (pur essendo anche da noi operante la direttiva europea che ha istituito il Comitato Sindacale Aziendale) la quale – nata a Londra e vissuta per anni a New York – è responsabile delle risorse umane di “Astrazeneca”, la famosa (e discussa) fabbrica di vaccini…

A questo proposito, vorremmo far presente che lo spirito “sovranista” assente in Italia è sempre attivo negli altri Paesi europei e citiamo un esempio. Quando l’impresa siderurgica tedesca Krupp, divenuta proprietaria delle Acciaierie di Terni, volle chiudere un’importante reparto di questa antica impresa italiana perché era concorrente di un’analoga produzione tedesca, il Comitato di gestione della fabbrica tedesca approvò quell’operazione fregandosene del destino dei lavoratori italiani. Quindi presumiamo che questo è ciò che avverrà quando si tratterrà d’intervenire sugli impianti produttivi automobilistici italiani.

Infine, sembra superfluo rilevare che questa nuova impresa avrà, com’è ormai abitudine delle grandi multinazionali, sede legale e direzione centrale ad Amsterdam, in Olanda che si conferma sempre più il “paradiso fiscale” all’interno dell’Unione Europea, a danno delle finanze dei Paesi membri, oltre – ovviamente – avere direzioni operative nei vari Paesi in cui vi sono i suoi stabilimenti.

Ma cosa significa tutto ciò per i lavoratori e gli impianti produttivi italiani?

Non molto, anzi probabilmente peggiorerà la situazione. La famiglia Elkann (che è di origine francese, non dimentichiamolo, perché tale era il marito – poi divorziato – di Margherita Agnelli da cui sono nati John e Lapo) ha progressivamente smobilitato le partecipazioni (ricordiamo ad esempio la vendita della secolare “Magneti Marelli”, un vanto dell’industria italiana) e trasferito la maggior parte della produzione dei veicoli all’estero. Sta di fatto che al tempo di Romiti la FIAT produceva 2,200,000 auto, oggi scese della metà, e si continua ad investire all’estero: è stato programmato di impiegare due miliardi di euro per ammodernare l’impianto automobilistico a Tychy in Polonia per costruire auto FIAT, ALFA ROMEO, JEEP. Poi c’è la questione dell’auto elettrica che è divenuto l’obiettivo produttivo dell’Unione Europea per seguire la moda “verde”: anche questo tipo di produzione porterà a riduzione delle attività tradizionali. In particolare, saranno danneggiati ancor di più di come lo sono ora tutte le imprese del cosiddetto “indotto”, fornitrici di prodotti lavorati da utilizzare nel montaggio dei veicoli, che costituivano un tempo il famoso “pianeta FIAT” che dava lavoro a centinaia di migliaia di lavoratori. I quali ora sono in gran parte in cassa integrazione, strumento che gli amministratori della FCA utilizzano scientificamente in Italia per ridurre i costi e aumentare gli utili.

Quando, negli anni della crisi in cui la FIAT stava per fallire, ci fu chi chiese di farla acquisire dallo Stato visti anche i miliardi usufruiti per le numerose casse integrazioni, i pensionamenti anticipati e i bonus fiscali per far acquisire nuove auto. I “liberisti” (e la famiglia Agnelli) protestarono in nome della libertà d’impresa: oggi, l’impresa non è più italiana e quella libertà si è rivelata a danno dei lavoratori, delle imprese “satelliti” e del fisco italiano!

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