Iva o Irpef, qual è il danno minore?

Tempo di legge finanziaria, tempo di revisione (cioè incremento) dei prelievi fiscali da parte dello Stato, tempo di bilanci pubblici e privati.

Mentre il governo in carica cerca affannosamente di mettere d’accordo gli eterogenei, e rivali tra loro, partecipanti alla coalizione di governo costituita in fretta e furia due mesi fa, le cronache c’informano sui diversi incrementi di imposte e tasse progettati per far quadrare i conti e presentarli in bella forma ai sorveglianti europei per evitare censure e sanzioni.

Qui s’innesta la questione dell’IVA, l’imposta sul valore aggiunto di cui un’aliquota serve anche (molti non lo sanno) a finanziare le ingenti spese delle Istituzioni europee. Pendeva un’ingiunzione – europea, appunto – risalente ai governi dell’era renziana che imponeva un aumento dell’IVA di 25 miliardi di euro. E la costituzione di questo governo è stata giustificata proprio con la necessità di elaborare un bilancio che escludesse quell’aumento.

In realtà, bastava ribattere a muso duro ai Commissari europei che l’Italia non avrebbe mai applicata quella loro ingiunzione perché intendeva rimanere sovrana nella sua politica fiscale: e - alle sanzioni eventualmente attuate da Bruxelles con l’interruzione dei finanziamenti per le aree in crisi o per determinate iniziative infrastrutturali, sociali o culturali - si poteva rispondere rallentando o interrompendo i versamenti al bilancio europeo, visto che l’Italia è tuttora contribuente netto  nel senso che versa di più di quello che riceve. In ogni caso, scegliendo di non aumentare l’IVA, l’importo mancante è stato ripartito su una serie di imposte nuove o “rimodulate”.

Ma, detto questo, occorrerebbe anche fare una riflessione sull’IVA.

Quest’imposta si applica a tutte le merci o servizi in vendita ai cittadini: è quindi una tipica imposta sui consumi, che è articolata secondo il tipo di consumi (bassa per quelli alimentari o sanitari, media per la maggior parte delle merci e dei servizi, elevata per beni considerati di lusso).

In un anno, sono incassati in tal modo 135 miliardi di euro, di poco inferiori a quelli incassati con l’IRPEF che sono 190. Calcolando l’applicazione a circa 30 milioni di famiglie esistenti in Italia, considerando anche quelle con una sola persona, avremmo un onere medio di 4.500 euro annue, ossia circa 400 euro al mese.

Con l’aumento di 25 miliardi, l’importo salirebbe di altre 900 euro circa, ossia di circa 75 euro al mese.

A questo punto va fatta una riflessione e sorge un quesito.

La differenza principale tra le imposte dirette e le imposte sul consumo sta nel fatto che le prime sono prelevate, quasi sempre, alla fonte senza che il cittadino abbia la possibilità di decidere, salvo esercitare (quando possibile) detrazioni ed elusioni consentite dalla legge o rifugiarsi nelle attività sommerse.

Invece, l’imposta sui consumi viene per così dire accettata dal cittadino quando vuole comprare qualcosa: e ha una grande capacità di scelta e di decisione, anche per i beni alimentari e quelli essenziali per la vita. Ci sono anzi molte persone accorte, specie le madri di famiglia e gli anziani, che riescono a spendere il meno possibile pur acquistando quello di cui hanno bisogno. E, ovviamente, ciò vale anche per gli altri generi: alcune spese si possono rimandare, alcuni beni si possono usare fino a consumazione senza farsi abbindolare dal consumismo che richiede continui ricambi dettati dalla moda o da nuovi modelli, di altre se ne può fare a meno.

Senza poi dimenticare che per tutte le centinaia di migliaia di cittadini che sono titolari di una “partita IVA”, la cosa non incide molto perché se aumenta l’IVA che paga aumenta anche quella che fattura e, com’è noto, si versa solo la differenza.

Insomma, l’imposta sui consumi consente al cittadino la libertà di pagarla scegliendo se acquistare o meno un determinato prodotto, od usufruire o meno di un servizio. Certo, ci sono servizi cui non si può rinunciare, quali quelli energetici: però in genere c’è un’ampia libertà che può essere utilizzata in modo accorto. Insomma, dinanzi a uno Stato gabelliere e spendaccione, accettare le imposte sui consumi potrebbe essere una – certamente  limitata – forma di difesa.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

Con questo non vogliamo certamente dire che sarebbe giusto incrementare le percentuali dell’IVA, sarebbe senz’altro meglio che rimanessero come sono e magari diminuissero. Però se l’alternativa dovesse essere quella di avere altre imposte dirette o imposizioni costose come quelle del pagamento obbligatorio con le carte bancarie, allora forse sarebbe stato meglio ritoccare le attuali aliquote IVA.

Anche perché non è detto che diano il gettito previsto considerato che alcuni consumi potrebbero calare dopo gli incrementi.

 


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