Alfie e il totalitarismo vittorioso

Il caso del povero Alfie Evans, il bimbo inglese affetto da una malattia grave e sconosciuta che i tribunali inglesi e gli intellettuali di servizio delle oligarchie hanno voluto morto dovrebbe aprire gli occhi ad un’opinione pubblica drogata, che, come le tre scimmiette, non parla, non vede, non sente. Ringraziamo il coraggio dei genitori del piccolo se il caso sta iniziando a scuotere alcune coscienze. L’Italia ha attribuito ad Alfie la cittadinanza, l’ospedale romano Bambino Gesù è pronto ad accoglierlo, il Papa, bentornato tra noi, ha battuto un colpo a favore della vita. Hanno staccato le macchine, ma Alfie ha continuato a respirare, non voleva morire.

Se siamo ancora persone e non bestioni selvaggi armati di telefonino e diritti, tutti ipocrisia, chiacchiere e finta umanità, dobbiamo reagire. I tribunali inglesi, dopo aver stabilito, come già fecero con il piccolo Charlie Gard, che per lui la “cosa migliore è morire”, ripristinando di fatto la pena di morte, negano ai genitori il diritto di trasportare il bimbo in Italia per un viaggio di disperata speranza, a loro spese, ovviamente. Dove è finito, signori della corte e orgogliosi britannici, l‘“habeas corpus”, ovvero il diritto di ciascuna persona di disporre di se stesso, antico vanto giuridico inglese?

No, il corpo di Alfie non è suo e dei suoi genitori che lo amano, ma è proprietà indisponibile di uno Stato violento, corroso all’interno. Ebbe ragione Ida Magli nel suo ultimo libro, Figli dell’uomo, a smascherare la cosiddetta civiltà che odia i suoi figli più piccoli; e fu straordinario profeta Gesù di Nazareth a mettere in guardia con parole di fuoco: “chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare.” (Matteo 18,6).

La verità è che corriamo a gran velocità verso la selezione della specie; lo sterminio degli esseri umani più fragili (bambini, feti indesiderati, anziani, malati) viene chiamato civiltà, nuovi diritti, addirittura dignità. Non è strano che sia la Gran Bretagna in prima linea. Furono le aberrazioni della rivoluzione industriale a portare il lavoro infantile nelle fabbriche, unitamente allo sfruttamento brutale degli adulti. Furono le carceri inglesi a riempirsi di bambini, così come fu il superbo impero di Sua Maestà a inventare l’eugenetica (Thomas Galton, gli Huxley). Tutto per il nostro bene.

Un’agenzia di stampa spagnola, Infocatòlica, ha rivelato che l’ospedale in cui è stato Alfie espiantò in passato cuori e organi di cadaveri di migliaia di bimbi senza il consenso dei genitori. A provarlo ci sarebbe una corposa documentazione di fonte governativa, firmata dall’allora ministro della sanità Milburn. L’accusa è che l’ospedale Adler Hey non si limitava a estirpare gli organi, ma immagazzinava, stoccava, conservava (scusate, non troviamo il verbo giusto!) una specie di collezione di teste.

Occorre proclamare alto e forte, finché non sarà vietato per legge e punito con il carcere, che la nostra è una (in)civiltà di morte, un obitorio a cielo aperto mascherato da diritti umani. Il trattamento riservato al bimbo Alfie avrebbe indignato gli animalisti se fosse toccato a un cavallo, avrebbe sollevato le ire di mille Boldrini e di santi parroci se Alfie fosse un immigrato. Al contrario, stimati (?) giuristi come Vladimiro Zagrebelsky e reputate filosofe “de sinistra” come Michela Marzano mostrano il pollice verso. Il bambino deve morire, certamente per il suo bene, che essi sanno giudicare meglio di ogni altro. Sostituti, a questo punto, non dei genitori, ma di Dio stesso. Perché la deriva disumana, anzi antiumana, ha bisogno di chierici a tariffa pronti a giustificare l’ingiustificabile, a celare, nascondere dietro la retorica dei “diritti” una verità indicibile: Alfie deve morire perché costa troppo allo Stato, alle assicurazioni, ai fondi di investimento che possiedono ormai i nostri corpi. I ragionieri esperti di matematica attuariale hanno fatto i loro conti ed emesso il verdetto. Questa è la libertà, quelli i loro sbandierati diritti, la disgustosa pantomima della democrazia.

 


Editoriale

 

I diritti civili

di Adriano Tilgher

Si fa un gran parlare, in questi tempi, di diritti civili e la mia sensazione è che pochi fra quelli che ne parlano sappiano esattamente cosa siano questi diritti civili, che sul piano della sinistra hanno letteralmente soppiantato i diritti sociali che sono scomparsi dal dibattito politico, nonostante siano totalmente sotto attacco. Guardo raramente e con difficoltà i dibattiti televisivi perché sento solamente banalità per lo più insulse, prive di riscontri reali e soprattutto completamente estranei alla realtà e alla gravità dei problemi che stiamo affrontando come Italiani.

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La Spina nel Fianco

 

Professor Odal

5 marzo 1965, muore al Cairo, Omar Amin, militare, politico, filosofo ed esoterista tedesco naturalizzato egiziano, amico di Renè Guenon e di Savriti Devi. Omar Amin, nasce in Germania a Karbow-Vietlübbe, un piccolo comune del Meclemburgo-Pomerania, il 25 gennaio 1902, con il nome di Johann Jakob von Leers. Studiò nelle università di Kiel, Berlino e Rostock, laureandosi in giurisprudenza. Si dedicò soprattutto a studi storici e linguistici, come la slavistica. Divenne un poliglotta, imparò italiano, russo polacco, ungherese arabo e giapponese; scriveva correntemente in latino, ma anche nello yiddish degli ebrei aschenaziti dell'Est Europa. Ernst Jünger (1895-1998) lo definì “un genio linguistico”. Nel mondo intellettuale tedesco von Leers era noto con l'appellativo, "professor", il professore,  anche in virtù della cattedra universitaria presso l'università di Jena.

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