Natura e cultura

Un’unità a tre vertici che, se condivisa, permette di osservare con terrore la cultura che ci contiene.

 

Si possono esprimere tre considerazioni, relative non tanto al crollo di parte del ghiacciaio della Marmolada e alla connessa questione umana, quanto alle reazioni che tutti abbiamo letto e ascoltato sui media d’informazione e che, tendenzialmente, ascolteremo e leggeremo ancora. In particolare, alla cultura che le genera e supporta.

Sono tre note di un’unità. In quanto tali non condivisibili, se non avendo già in sé gli elementi per trovarle ovvie, una più dell’altra.

Se così fosse, volendo cercare un epilogo pragmatico-evolutivo, è necessario ricordare che le consuetudini in cui siamo immersi tendono ad impedirlo. La tessitura di leggi e divieti forzati non tocca mai il cuore della questione. Riguarda solo la superficie, la facciata del problema e, per di più, è culturalmente, oltre che politicamente, concepita come obbligatoria. Quella moralistica non è in grado di fare un solo passo fuori dalla propria concezione del mondo, impedendo così di vedere la legittimità di quanto stiamo condannando. Impedendo l’aggiornamento di prospettiva necessario alla realizzazione delle consapevolezze per riconoscere quanto natura e cultura stiano viaggiando in direzione diametralmente opposta. Quanto in questo risieda l’origine di molti commenti letti e ascoltati anche nella vicenda del crollo in Marmolada.

La prima considerazione riguarda la massima banalità possibile: le montagne vanno a valle. Le rimostranze cui assistiamo pare non ne tengano conto. O, peggio, pare siano mosse dal sincero intento di poterle fermare.

Il medesimo accadimento in una terra remota scelta da una cordata o sostituendo gli uomini con camosci, non genererebbe la ridda di espressioni alle quali stiamo assistendo. Proprio come se fosse ovvio che le montagne vano a valle.

La seconda riguarda il modo dell’affermazione e quello dell’ascolto. Mossi per affermare noi stessi – come la cultura della competizione non perde occasione di spingerci a fare ­ – tendiamo a dare spazio alla vanità che ogni successo ci permette di esprimere. Da quell’espressione e dal suo riconoscimento sociale, traiamo i motivi di autostima, che altro non sono che ragioni per ripetere il ciclo che la produce. Ma, tanto il diritto alla vanità, quanto quell’autostima poggiano su paralitiche infrastrutture psicologiche, dal momento che necessitano di continui sostegni esterni. Quando questi vengono a mancare, l’individuo si ritrova sul ciglio della perdizione.

Diversamente, a mezzo dell’ascolto, la persona tende e muoversi secondo la propria misura. Risente meno delle spinte sociali e culturali esterne. È più in grado di rinunciare quando il registro cambia e può vedere il registro che sta cambiando. Nella condizione psicologica dell’ascolto, si possono tenere a freno le velleità vanesie. Si possono anche lasciar correre, con la consapevolezza che, qualunque cosa accada, la responsabilità sarà nostra, senza alcuna possibilità di distinguo e precisazioni.

Nel modo dell’affermazione, ci muoviamo egoicamente per l’interesse personale. Una logica apparentemente inconfutabile soltanto perché ignari che è proprio il domino dell’ego su noi a generare le più forti disarmonie. In quello dell’ascolto, possiamo prenderne le distanze e allargare lo sguardo.

La terza considerazione riguarda la cultura che ci siamo confezionati. Se è possibile una sua definizione, essa potrebbe includere l’idea che la sua direzione è esattamente opposta a quella che la natura ci indica e che per millenni è stata presente nel fare umano.

Uno dei culmini dell’attuale distanza si esprime con il concetto di société sécuritaire. Come è indicato dal nome stesso, essa è dominata dalla pretesa/diritto alla sicurezza. È un fatto economicamente aureo, che fa campare bene alcuni e sperare tutti. Ma anche un fatto creativamente disastroso. Mortifica la capacità di trovare in se stessi le doti necessarie al superamento di problemi. Esalta l’attribuzione di responsabilità. Un atteggiamento fortemente pungolato dall’interesse materiale.

La société sécuritaire, ma con essa tutta la sua genealogia materialista, è una sorta di subprime psicoculturale. Una speculazione senza basi che non siano speculative. Un intellettualismo che crediamo possa contenere la verità. Tuttavia, come accade in ambito finanziario, le bolle galleggiano nell’aria e affascinano con il loro riflessi di ricchezza e sicurezza, almeno finché non scoppiano. Lo fanno senza avvertirci. Travolgeranno chi si muoveva attraverso il modo dell’affermazione. Lasceranno basiti coloro che si muovevano attraverso l’ascolto.


Editoriale

 

I diritti civili

di Adriano Tilgher

Si fa un gran parlare, in questi tempi, di diritti civili e la mia sensazione è che pochi fra quelli che ne parlano sappiano esattamente cosa siano questi diritti civili, che sul piano della sinistra hanno letteralmente soppiantato i diritti sociali che sono scomparsi dal dibattito politico, nonostante siano totalmente sotto attacco. Guardo raramente e con difficoltà i dibattiti televisivi perché sento solamente banalità per lo più insulse, prive di riscontri reali e soprattutto completamente estranei alla realtà e alla gravità dei problemi che stiamo affrontando come Italiani.

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La Spina nel Fianco

 

Professor Odal

5 marzo 1965, muore al Cairo, Omar Amin, militare, politico, filosofo ed esoterista tedesco naturalizzato egiziano, amico di Renè Guenon e di Savriti Devi. Omar Amin, nasce in Germania a Karbow-Vietlübbe, un piccolo comune del Meclemburgo-Pomerania, il 25 gennaio 1902, con il nome di Johann Jakob von Leers. Studiò nelle università di Kiel, Berlino e Rostock, laureandosi in giurisprudenza. Si dedicò soprattutto a studi storici e linguistici, come la slavistica. Divenne un poliglotta, imparò italiano, russo polacco, ungherese arabo e giapponese; scriveva correntemente in latino, ma anche nello yiddish degli ebrei aschenaziti dell'Est Europa. Ernst Jünger (1895-1998) lo definì “un genio linguistico”. Nel mondo intellettuale tedesco von Leers era noto con l'appellativo, "professor", il professore,  anche in virtù della cattedra universitaria presso l'università di Jena.

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