Il successo di Putin

A centouno anni dalla Rivoluzione Bolscevica, il popolo russo premia il Nazionalismo patriottico di Vladimir Putin, il militare del KGB, mai nostalgico sempre realista e convinto della grandezza Russa, che ha tentato di ricostruire.  Un uomo di Stato, che ha incluso il popolo nel suo progetto di Grande politica piuttosto che il favoritismo e la sottomissione agli oligarchi, abili a tenere El'cin e la politica del Cremlino in pugno, pagando e sponsorizzando le campagne elettorali, monopolizzando risorse naturali. Putin li ha assorbiti nello Stato, portandoli a pagare le tasse, ad arricchirsi, rispettando la volontà del Cremlino. Questa è stata la sua prima grande vittoria.

Un uomo del mistero, militare e agente del KGB a Dresda, non ha mai dato risposte esaustive di quel periodo, evadendo spesso e volentieri domande specifiche sull’argomento, ma mostrando tutta la delusione provata per la perdita di prestigio toccata al Paese vincitore della seconda guerra mondiale, in perdite umane, in sforzo bellico. E poi il crollo della Unione Sovietica nel 1991 ha manifestato chiaramente il declino a cui si era avviato l’impero Russo, una caduta economica, culturale, sociale, politica, demografica, tale da condurre le potenze occidentali a decretarne, forse troppo frettolosamente, la sconfitta. Abbeverato alla fonte patriottica del militarismo dei servizi segreti non ha mai nascosto il suo rigetto educato per la Rivoluzione romantica mondiale di Vladimir Lenin, patrimonio consacrato da Gorbačëv e i suoi predecessori. All’eroe bolscevico ha preferito Stalin, il georgiano, l’uomo dello Stato, il nemico della socialdemocrazia, rappresentante della capacità russa di formare un impero etnicamente vario e integrato.

“Una bella favola perniciosa per la Russia”- così ha definito in una video intervista ascoltabile facilmente su youtube la rivoluzione del 1917, e del trattato di Brest-Litovsk firmato da Lienin orgogliosamente ha aggiunto in un suo discorso: “Siamo stati sconfitti da un paese sconfitto”.  Persino l’anniversario del centenario rivoluzionario nel 2017 è riuscito a far passare sotto silenzio, dopo la cancellazione rumorosa della festa della rivoluzione del 7 Novembre e la preferenza di una festa Nazionale il 4 Novembre. Nella piazza rossa troneggia ancora la statua di Lenin, come i ruderi della storia, essa ci parla di un passato lontano, non più riferimento di un popolo, non più collante, ma storia, di cui finalmente criticamente si può accettare la portata.

Incapace di difendere il mito della sconfitta non ha risparmiato il suo sarcasmo cinico neanche alla grande Unione Sovietica, deputata sì a tenere in piedi un ampio impero “con la forza del filo spinato e le armi” però. Identitarista, antioccidentale quanto basta, eurasiatico prima che europeista, cristiano ortodosso è stato il leader in grado di risolvere l’emarginazione della chiesa nel rapporto con la politica, inglobando la fede oltre che praticandola. Le Ragioni di Stato non si sono mai confuse con le sue scelte personali, le sue preferenze e simpatie. Accusato di violazione dei diritti umani, di omicidi di oppositori, di omofobia, Putin in 4 mandati ha portato la Russia ad occupare sullo scacchiere internazionale il ruolo perduto e a frenare i fremiti occidentali per la convinzione di aver vinto la Guerra Fredda. La sua più grande preoccupazione rimane quella di evitare la disintegrazione della Russia al suo interno così etnicamente variopinta ed assicurarne un rafforzamento coeso.  Non ha risparmiato guerre al suo popolo affiancate da crescita demografica ingente, controllo delle materie prime come il petrolio e il gas, riforme economiche e della giustizia, controllo dei media. La sua unione con la chiesa ortodossa gli ha permesso di difendere la sacrosantitas della famiglia e tutelare le menti vergini dei bambini spesso esposti a indottrinamento perbenista in Occidente. Ha osato e ha invertito la rotta e non lascerà alla storia patenti di onestà, preoccupato dalle questioni di Stato prima che da quelle morali, alla Russia nella prospettiva futura prima che a custodire le tenaglie del passato. Un capo, una guida, che il popolo ha riconosciuto in quel 73% circa dei voti e che ha dato al vassallaggio impotente europeista e all’America così perduta nel suo materialismo liberale e puritano una lezione di sovranità e di identità.


Editoriale

 

I diritti civili

di Adriano Tilgher

Si fa un gran parlare, in questi tempi, di diritti civili e la mia sensazione è che pochi fra quelli che ne parlano sappiano esattamente cosa siano questi diritti civili, che sul piano della sinistra hanno letteralmente soppiantato i diritti sociali che sono scomparsi dal dibattito politico, nonostante siano totalmente sotto attacco. Guardo raramente e con difficoltà i dibattiti televisivi perché sento solamente banalità per lo più insulse, prive di riscontri reali e soprattutto completamente estranei alla realtà e alla gravità dei problemi che stiamo affrontando come Italiani.

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La Spina nel Fianco

 

Professor Odal

5 marzo 1965, muore al Cairo, Omar Amin, militare, politico, filosofo ed esoterista tedesco naturalizzato egiziano, amico di Renè Guenon e di Savriti Devi. Omar Amin, nasce in Germania a Karbow-Vietlübbe, un piccolo comune del Meclemburgo-Pomerania, il 25 gennaio 1902, con il nome di Johann Jakob von Leers. Studiò nelle università di Kiel, Berlino e Rostock, laureandosi in giurisprudenza. Si dedicò soprattutto a studi storici e linguistici, come la slavistica. Divenne un poliglotta, imparò italiano, russo polacco, ungherese arabo e giapponese; scriveva correntemente in latino, ma anche nello yiddish degli ebrei aschenaziti dell'Est Europa. Ernst Jünger (1895-1998) lo definì “un genio linguistico”. Nel mondo intellettuale tedesco von Leers era noto con l'appellativo, "professor", il professore,  anche in virtù della cattedra universitaria presso l'università di Jena.

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