APPROFONDIMENTI: In morte di Amedeo di Savoia, duca d’Aosta

E’ morto ad Arezzo, nell’ospedale pubblico della città, il principe Amedeo, duca di Savoia, duca d’Aosta, per l’anagrafe italiana soltanto Amedeo Savoia Aosta. Aveva settantasette anni, essendo nato a Firenze il 22 settembre 1943. Con lui se ne va un pezzo di storia, una disciplina che il popolo immemore e diseducato ignora e a cui è indifferente. Gli scarni comunicati della stampa lo ricordano soprattutto per la lunga querelle dinastica con il cugino Vittorio Emanuele, figlio di Umberto II, ultimo re d’Italia.

Per noi era un testimone vivente della storia. Imparentato con le famiglie reali di tutta Europa, figlio e nipote di re e regine, una delle sue trisnonne fu la regina Vittoria d’ Inghilterra. Era cugino e nipote dei Borbone di Spagna, della famiglia reale greca, pronipote di Federico III di Germania, cugino degli Zar di Russia e sposò in prime nozze Claudia d’Orléans, figlia del Conte di Parigi, l’ultimo capetingio francese.

Era, insomma, la storia d’Europa fatta persona. Per questo non si può liquidare la sua morte solo con parole di circostanza, o con i toni del “coccodrillo” da riviste del cuore. Non ci interessa giudicare la sua vita, le sue scelte o prendere posizione sulla futile lite tra principi e cortigiani su chi sia il pretendente al trono d’Italia: questioni scritte sull’acqua. Era e personificava un pezzo importante della storia della nostra Patria e dell’Europa intera.

Chi scrive ne ha un ricordo personale: un paio di anni fa, provato dalla malattia (aveva lottato per anni con il cancro) lo incrociammo, solo e con un trolley trascinato a fatica, nella libreria della stazione Brignole di Genova. Probabilmente era reduce dalla cerimonia di tumulazione dei resti di Vittorio Emanuele III nel santuario di Vicoforte Mondovì, splendido monumento di arte e di fede voluto dai Savoia nel XVIII secolo. Lo guardammo a lungo e leggemmo un impercettibile sorriso sul volto stanco: sapeva di essere stato riconosciuto e- così almeno ci sembrò- capì che lo sguardo non era di un curioso, ma di qualcuno che vedeva in lui un testimone, a suo modo un soggetto di storia.

Il destino sta nei giorni stessi della sua nascita: il fatidico 1943, poche settimane dopo l’8 settembre, la morte della Patria, lo sbandamento dell’esercito, la sconfitta, la frattura mai ricomposta della nazione e del popolo italiano. Nacque leggermente prematuro tra le bombe alleate che colpivano Firenze, dove era rifugiata la madre, Irene di Grecia, mentre il padre, Aimone di Savoia, re di Croazia con il nome di Tomislav II , era lontano, alle prese con gli eventi della guerra.

Il nonno paterno era Emanuele Filiberto, comandante della Terza Armata che prese Gorizia nella prima guerra mondiale e difese il Piave nel 1918 prima dell’assalto finale di Vittorio Veneto. Un anno prima della nascita di Amedeo, moriva in Kenya, maltrattato prigioniero degli inglesi, suo zio Amedeo d’ Aosta, che difese in armi l’Amba Alagi da viceré d’Etiopia. 

Irene fece prendere le impronte digitali al neonato, nel timore di scambi o di colpi di mano tedeschi, poi- madre e figlio – furono avviati su ordine di Himmler nel campo di concentramento austriaco di Hirschegg, presso Graz, insieme alle cugine Margherita e Maria Cristina, le figlie del terzo Duca d’Aosta, Amedeo. Condannati a morte con ordine firmato, furono liberati nel maggio 1945 dai francesi. A pochi chilometri avanzavano i russi di Stalin e sarebbe stata morte certa per quei discendenti degli Zar.

Un tremendo ingresso nella vita per il piccolo, che trascorse poi gran parte della giovinezza e della maturità in una tenuta toscana, il Borro, da gentiluomo di campagna e imprenditore agricolo. Fu poi costretto a vendere la tenuta alla famiglia calzaturiera Ferragamo. Probabilmente non fu un brillante uomo d’impresa, ma certo mantenne uno stile e un profilo migliore rispetto al cugino Vittorio Emanuele e a Filiberto, finito a fare il testimonial pubblicitario e la comparsa in mediocri spettacoli televisivi.

Amedeo, da vero rampollo della nobiltà tradizionale, frequentò il collegio navale Morosini di Venezia e fu ufficiale di Marina, autorizzato a giurare fedeltà alla Repubblica da re Umberto, esiliato a Cascais.

Non sappiamo se aveva ragione la Consulta dei Senatori del Regno, creata in repubblica nel 1955, a proclamarlo erede al trono e capo della famiglia reale, estromettendo Vittorio Emanuele. Sul piano della legittimità dinastica, è evidente il primato di Vittorio, ma se la regalità, la nobiltà “che obbliga” ha un significato, certo Amedeo è stato per tutta la vita dignitoso testimone della storia e della dinastia, che portava nei numerosi nomi di battesimo, nei predicati nobiliari, nella parentela con le famiglie che hanno fatto l’Europa sin dal Medioevo.

In un vecchio film, Vittorio Gassman interpretava il ruolo di un orgoglioso principe romano decaduto e spiantato, ma ancora consapevole del suo rango. Un giovane (Enrico Montesano) gli dà una mano nella miseria vissuta in un palazzo spettrale, svuotato di tutto. Un giorno gli chiede, in romanesco: Principe, che cos’è la nobiltà? “. Il vecchio si erge in tutta la sua statura, il volto riacquista la secolare fierezza e risponde con totale serietà: “Nobiltà significa che li mortacci de li mortacci mia già facevano la storia”.

Tutti gli antenati di Amedeo fecero la storia, la incarnarono e qualche volta ne furono vittime. Il duca era invitato alle cerimonie ufficiali al Quirinale, un gesto di riguardo non nei suoi confronti, ma verso la nazione, e ogni volta chiedeva di visitare le stanze dove aveva dormito da bambino. Un dettaglio, certo, insignificante per un popolo dimentico di se stesso, ma il segnale della continuità incarnata della Patria. Anticaglie, forse, inutili nostalgie di vecchi signori che ostentano medaglie mai conquistate o meriti che – quando ci furono- appartennero ad altre generazioni. Ma un popolo è la somma di passato e presente e la sua proiezione nel futuro.

I re, anche quelli che non furono degni del trono e dei momenti drammatici, questo sono e questo rappresentano: la continuità, il segno visibile dell’esistenza e della persistenza dei loro popoli. Oltre la cronaca della sua vicenda di uomo, Amedeo è stato un Aosta ed è stato un Savoia, e poco importano le sentenze dei tribunali sulle imbarazzanti diatribe sull’uso del cognome e del titolo, trattati come un marchio, un brand commerciale.

Per questo, per senso della storia e amore di Patria, chiniamo il capo non solo dinanzi alla morte dell’ uomo, ma alla conclusione di un ciclo storico di cui era simbolo vivente l’inconsapevole neonato nella Firenze del settembre 1943, figlio, nipote e pronipote di sovrani. Non sappiamo se sarebbe stato un buon re, ma certo avrebbe rappresentato con dignità e onore la Patria. E’ moltissimo, a paragone di tanti protagonisti e comprimari dell’Italia contemporanea.


Editoriale

 

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La situazione sta evolvendo in segno positivo. Se osserviamo con attenzione le cose che accadono attorno a noi, ci rendiamo conto di quanto sia falsa, inutile e depistante la presunta realtà che ci raccontano i media tutti (o quasi) e quanto si stia risvegliando il popolo italiano. Basta un po’ di spirito di osservazione. Iniziano ad essere tante le persone che si sentono in dovere di esprimere il proprio dissenso, a dare la giusta lettura degli eventi, a parlare con linguaggi che sembravano spenti, perduti. Strani simbolismi appaiono anche dalle stanze ufficiali. Cosa fino a ieri impensabile. Qualcosa sta cambiando.

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