La croce ardente di Notre Dame

Un’immagine tra le mille del rogo della cattedrale parigina di Notre Dame ci ha commosso, un fotogramma colto dall’alto nella notte trasfigura l’incendio in una grande croce ardente. C’è in quella forma catturata nel buio di un evento drammatico, un simbolismo che lascia senza fiato. Non sappiamo l’esatta entità dei danni, né conosciamo le cause. Saremo un po’ paranoici, ma non ci fidiamo delle spiegazioni ufficiali che verranno. Gli stupidi entusiasmi di qualche islamista, prontamente rilanciati da siti quantomeno sospetti, ci lasciano indifferenti.

Confessiamo che, allertati dal messaggio disperato di un amico che paventava la distruzione completa del monumento simbolo della cristianità francese, la prima cosa a cui abbiamo pensato, si parva licet componere magnis, è stato lo stupido paragone di Gigino Di Maio con il Medioevo a proposito delle giornate della famiglia. Nel Medioevo, da lunedì 16 aprile lo sa anche l’ex controllore dei biglietti allo stadio San Paolo, si edificavano cattedrali destinate a sfidare i secoli e diventare simboli potenti di civiltà, fede, cultura, scienza, memoria, bellezza. Tutte cose inutili nell’era fortunata di Internet, del consumo e dei diritti.

Poiché riusciamo a vedere un canale televisivo francese, ci siamo sintonizzati e abbiamo potuto osservare e ascoltare. Gli interventi, a partire da quello di Emmanuel Macron, hanno mostrato che la Francia, tra mille decadenze, è ancora la nazione europea che più tiene a se stessa. Colpisce – un altro segno? – che la guglia crollata sia stata innalzata nel 1860, il pezzo più moderno del maestoso omaggio della Francia, una volta figlia prediletta della Chiesa, alla Madre di Dio.

No, non può sparire Nostre Dame, dove aleggia lo spirito della zingara Esmeralda e del povero Quasimodo immaginati da Victor Hugo, lì fu incoronato Napoleone, in un gesto di parziale riconciliazione con la storia dopo la tempesta rivoluzionaria, lì fu proclamata santa la giovane madre della patria Giovanna d’Arco. Sorge spontaneo il paragone con l’altro simbolo di Parigi, la torre Eiffel, il gigante d’acciaio figlio della tecnica dell’orgoglioso secolo diciannovesimo, costruito non per testimoniare una fede ma per ricordare un’esposizione industriale. Chi scrive ricorda di averla toccata e di essere rimasto impressionato dal freddo del ferro scuro.

Le pietre di Notre Dame scaldano il cuore, le vetrate riempiono gli occhi e lasciano a bocca aperta. Una grandiosa sacra rappresentazione per tutti, l’abbecedario della fede che ha fatto l’Europa. Notre Dame sembra l’emblema della stabilità e della luce. Non deve sparire. Se conosciamo i francesi, la restituiranno presto all’incanto perduto.

Ma non è questione di arte: Notre Dame è identità e fede, non solo francese. Lo ha capito persino Jean Pierre Juncker, evidentemente sobrio, definendola “simbolo della nostra cultura europea”. Un’eredità che proviene, nonostante l’oblio dell’Europa dei ragionieri, da un evento capitato duemila anni fa in una grotta remota d’ Oriente. Ricostruire quanto è andato perduto non è un gesto dovuto alla storia, all’arte o ai visitatori, ma un vero e proprio atto di fede, un “autodafé”, per usare un’espressione di quel luminoso Medioevo che ci ha regalato Giotto, Francesco e Benedetto, e, in Francia, Bernardo di Chiaravalle, San Luigi e le cattedrali gotiche.

In Italia ci siamo riusciti con un piccolo, splendente gioiello romanico-gotico, la cattedrale di Venzone, ricostruita pietra su pietra dopo il terremoto del 1976. Simbolo della fede e dell’arte di un popolo civilissimo, quello friulano, è tornata dov’era dopo un disastro superato attingendo alla forza della tradizione.

Chissà che Nostra Signora, non l’edificio, ma lei, la Vergine, ci abbia voluto trasmettere un messaggio in quella straziante croce ardente di pietre poste da otto secoli. Lei sa da sempre ciò che intuì Antoine Saint Exupéry, un francese: l’essenziale è invisibile agli occhi. La sua cattedrale racconta una storia di civiltà, fede, cultura, bellezza e armonia invisibili a chi non guarda con il cuore. Saint Exupéry, brillante pilota di guerra, sorvolava Parigi piegata dai bombardamenti e scrisse, guardando dall’alto la folla sconvolta dalle macerie, un brano che sembra fatto per l’incendio di Notre Dame, forse incomprensibile all’uomo postmoderno. “Le pietre del cantiere sono un mucchio disordinato solo in apparenza, se c’è, perduto nel cantiere, un uomo, sia pure uno solo, che pensa a una cattedrale.” Non possiamo non pensare alla cattedrale e all’eterno di fronte a quella croce di fuoco nella notte. Nostra Signora arde ma è ancora con noi.  


Editoriale

 

Ricostruire l'unità nazionale

di Adriano Tilgher

Siamo alle solite. In Italia siamo troppo occupati ad affrontare temi marginali o impostici da altre nazioni per renderci conto della grave situazione in cui versa la nostra nazione. Purtroppo tutto questo accade perché a nessuno dei cosiddetti politici, né alle istituzioni interessa nulla dell’Italia; basti pensare alla scomparsa in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia, della grande cultura classica ed umanistica, base e fondamento sia del nostro percorso unitario che della nostra profonda identità.

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La Spina nel Fianco

 

L'ethos del cameratismo

1944 il poeta, soldato, (e bisessuale) Robert Graves, (1895 -1985) dà alle stampe il suo romanzo più famoso, "Il vello d'oro”, che parla fra altre cose, della guerra dei sessi nella mitologia Greca (successivamente ereditata dai Romani). Graves dipinge il "litigio" fra Zeus ed Era, più che come una satira sui problemi domestici delle famiglie greche, come un conflitto fra sistemi sociali inconciliabili. Nel descrivere il panteon greco l'autore narra dello scontro fra le divinità femminili dei popoli mediterranei guidate da Madre Gea e gli dei del pantheon maschile, guidati da Zeus arrivati dal nord con gli invasori achei, che si sono fatti largo a spallate nella Grecia arcaica e matriarcale. Ad Olimpia cittadina del Peloponneso occidentale, che ha dato nome alle "Olimpiadi" dove sorgeva il tempio di Gea, più venerato di tutta la Grecia, un paio di millenni prima dell’"era dell’Uomo", pare si sia tenuta una sorta di sacro G20, un super vertice religioso con lo scopo di raggiungere una pacificazione. Da un lato, le diverse manifestazioni della triplice Dea, con i loro riti della fertilità, ed un certo gusto per i sacrifici umani, dall’altro gli dei guerrieri venuti dal nord, che erano usi tenere le donne alla catena, in cielo come in terra. Ma sarà una pace fittizia, la guerra metafisica, non finirà mai, e giunge fino a noi alimentata dal tentativo del nuovo ordine mondiale di uniformare, e quindi annullare ogni diversità di genere.

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