Errare ed errore

‘Wer gross denkt muss gross irren’, così il filosofo Martin Heidegger, sebbene ci sia chi ha messo in discussione abbia mai detto o scritto simile concetto. La traduzione si rende, al di là della sua autenticità o meno, in ‘Colui che pensa nella grandezza, costui nella grandezza è costretto ad errare’. L’ho trovata proposta dallo storico Ernst Nolte nell’opera che aveva dedicato a chi viene considerato – non a torto – il più grande filosofo o fra i più grandi del Novecento. E nel linguaggio e nel suo senso gli si confà. Partecipa a quei ‘sentieri interrotti’ (die Holzwege) che, prendendo avvio dal limitare del bosco e più ci si inoltra, tendono a disperdersi fino a confondersi con la natura medesima. Chissà se si arriverà alla radura, lo spazio deputato alla luce (non a caso in tedesco radura si dice ‘Lichtung’ che rimanda alla luminosità), o trovare il percorso per la vetta, quella cima ove si contempla la vastità. In ciascun sentiero – e tappe della ricerca dell’Essere tra svelamento e occultamento – si raccoglie al contempo quell’andare e il suo avverso smarrimento, quel procedere e il momento del ripiegarsi in muta attesa. Qui l’errare e l’errore si rendono sinonimi.

Mi chiedo – la risposta però la porto già in me, ed è ineludibile – se valga pensare in grande per poi trovarsi a vagare incerto e dubbioso. Certo che sì. ‘Amore e coraggio non sono soggetti a processo’, anche se l’esito conclusivo è un plotone d’esecuzione nel gelido mattino del 6 febbraio ’45. E’ l’errare-errore l’Allocuzione per la cerimonia del solstizio d’estate (24 giugno 1933) quando il filosofo così s’esprime: ‘I giorni declinano – il nostro animo cresce - … Fuoco! Parlaci: non dovete diventare ciechi nella lotta, dovete invece mantenervi lucidi per l’azione. Fiamma! Che il tuo ardore ci faccia sapere chiaramente; la rivoluzione tedesca non dorme, sparge la sua nuova fiamma tutt’intorno e illumina il cammino sul quale per noi non c’è più ritorno’?

Se in ciò vi fu l’errare si delineò l’errore, da che parte stare comunque lo sappiamo. Rimane, comunque, il linguaggio di Heidegger fra le rovine, complesso e tale che ogni traduzione (del resto tradurre equivale ad un inconsapevole tradire) si rende arbitrio e limite. E darne una lettura ‘politica’ è volgersi alla volgarità del presente, risolverlo nel passaggio più semplice e banale. Come scrive Franco Volpi che fu mente acuta ed esigente interprete: ‘La proverbiale difficoltà del suo linguaggio e la vertiginosa altezza delle questioni da lui affrontate rendono particolarmente ardua la comprensione del suo pensiero’. E tanto basta. La nobiltà dell’uomo oltre che del filosofo sta nel aver saputo resistere alla tentazione di accreditarsi vittima del tempo e delle circostanze, come fecero in molti e più di lui ‘compromessi’. A Marcuse che lo invitava a giustificarsi di fronte agli orrori di Auschwitz. E Hannah Arendt, che le era stata discepola e amante, ne Le origini del totalitarismo ricorda: ‘Tutto ciò che è essenziale e grande è scaturito unicamente dal fatto che l’uomo aveva una patria ed era radicato in una tradizione’.Un’ultima citazione: ‘Sag, was sollen wir denn tun? – Das Lassen’, con l’inchiostro azzurro e in carattere gotico nel mentre è relegato nella sua baita, impedito a insegnare, privato della sua biblioteca. (Dì, cosa dunque è da farsi? Abbandonarsi). Eco – Heidegger fu interprete grandioso del filosofare di Nietzsche – di quel prendere la distanza che sola ci consente una visione più grande…


Editoriale

 

Ricostruire l'unità nazionale

di Adriano Tilgher

Siamo alle solite. In Italia siamo troppo occupati ad affrontare temi marginali o impostici da altre nazioni per renderci conto della grave situazione in cui versa la nostra nazione. Purtroppo tutto questo accade perché a nessuno dei cosiddetti politici, né alle istituzioni interessa nulla dell’Italia; basti pensare alla scomparsa in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia, della grande cultura classica ed umanistica, base e fondamento sia del nostro percorso unitario che della nostra profonda identità.

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La Spina nel Fianco

 

L'ethos del cameratismo

1944 il poeta, soldato, (e bisessuale) Robert Graves, (1895 -1985) dà alle stampe il suo romanzo più famoso, "Il vello d'oro”, che parla fra altre cose, della guerra dei sessi nella mitologia Greca (successivamente ereditata dai Romani). Graves dipinge il "litigio" fra Zeus ed Era, più che come una satira sui problemi domestici delle famiglie greche, come un conflitto fra sistemi sociali inconciliabili. Nel descrivere il panteon greco l'autore narra dello scontro fra le divinità femminili dei popoli mediterranei guidate da Madre Gea e gli dei del pantheon maschile, guidati da Zeus arrivati dal nord con gli invasori achei, che si sono fatti largo a spallate nella Grecia arcaica e matriarcale. Ad Olimpia cittadina del Peloponneso occidentale, che ha dato nome alle "Olimpiadi" dove sorgeva il tempio di Gea, più venerato di tutta la Grecia, un paio di millenni prima dell’"era dell’Uomo", pare si sia tenuta una sorta di sacro G20, un super vertice religioso con lo scopo di raggiungere una pacificazione. Da un lato, le diverse manifestazioni della triplice Dea, con i loro riti della fertilità, ed un certo gusto per i sacrifici umani, dall’altro gli dei guerrieri venuti dal nord, che erano usi tenere le donne alla catena, in cielo come in terra. Ma sarà una pace fittizia, la guerra metafisica, non finirà mai, e giunge fino a noi alimentata dal tentativo del nuovo ordine mondiale di uniformare, e quindi annullare ogni diversità di genere.

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