Vivere in esilio…

Nel romanzo I quaranta giorni del Mussa Dagh, episodio reale verificatosi durante l’olocausto del popolo armeno ad opera dei turchi negli anni della Grande Guerra, libro che rese celebre il suo autore, Franz Werfel scrive: ‘Il sapiente sta senza muoversi come un ragno in mezzo alla rete di raggi ch’egli tende sopra l’universo’. E m’è venuto a mente il filosofo inglese Francesco Bacone e il disprezzo verso quel tipo di ‘intellettuale’, seguace acritico e pedissequo dell’aristotelismo, che, appunto simile al ragno, dalla sua bocca nei suoi scritti – parole e ancora parole a descrivere il mondo e dettarne le leggi – finisce per imprigionarsi e sottrarsi alla concretezza del reale.

Forse per questo, dovendo abbandonare qualche centinaio di libri, feci strage di quelli pertinenti la storia della filosofia (stupidamente), trovandoli poi in impudica e confusa catasta ai piedi della scala, abbandonati a un triste e desolato destino. È la sorte di tante chiacchiere con cui nascondiamo l’impotenza a cambiare il mondo là dove le idee non sono suffragate dalle armi e robuste gambe… (Metafisicamente le Idee, intese qui come ce le ha descritte Platone, si sono vendicate: oramai, sono costretto a trascinarmi, più simile a un lombrico, e ad appoggiarmi al bastone a tre punte, modello ortopedico.

Vi risparmio, altresì, la lagna tra i sostenitori del metodo deduttivo rispetto a quello induttivo, lo scontro tra coloro che difendevano pigrizia mentale e interessi collaudati dietro la formula dell’ipse dixit e chi, al contrario, per usare una espressione in voga al tempo in cui la mia giovinezza era tutta all’ombra del ’68, intendeva ‘assaltare il cielo’). Riferendosi al medesimo personaggio Werfel aggiungeva: ‘Ma quando il discorso cadeva sulla politica, sulla guerra, su scottanti questioni attuali, il farmacista s’inquietava. Egli non amava avere conoscenza di cose simili.

Il mondo quale trastullo di dipendenze esteriori e d’interessi interiori era una perturbazione umiliante. Acquistava valore solo se trasportato nella lontananza disinteressata della contemplazione. Ultimo orgoglio dello spirito!’. Così, in un certo senso, ci sembrava essere a noi figli adolescenti mio padre.

Gli si rimproverava una esistenza monotona e grigia – lavoro e a casa libri di storia e musica classica alla radio -, a cui rispondeva come conoscesse il mondo e le sue cose proprio attraverso la lettura e ce ne dava dimostrazione. E, osservando uomini mediocri e mediocri accadimenti, mi sembra che forse non avesse tutti i torti.

Nietzsche scriveva: ‘Io vivo in esilio per dire la verità’ (anche se egli ebbe in conflitto, ad esempio in Umano, troppo umano, proprio il principio di verità, considerandolo solo una opinione che ha trovato forza e circostanze per imporsi…).

Io mi sento un orfano simile, aggrappandomi nel gorgo del presente ad Heidegger che denunciava Platone per aver gettato le basi del fraintendimento della metafisica da cui discende e si nutre il vero. (L’esilio non è lo sdegnoso rifiuto a non volersi sporcare mani e piedi, non la torre d’avorio di miserabili presunzioni, le grandi idee e i concetti più distanti per nascondere la miopia della quotidiana propria pochezza… è, viceversa, quella ‘grandezza (che) vuol dire dare una direzione’ (il rimando è sempre al padre di Zarathustra). Essere distanti per scavalcare il relativo e riscoprire come ‘la via più breve fra due punti è quella che passa per le stelle’ (José Antonio).

 

 

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Editoriale

 

Ricostruire l'unità nazionale

di Adriano Tilgher

Siamo alle solite. In Italia siamo troppo occupati ad affrontare temi marginali o impostici da altre nazioni per renderci conto della grave situazione in cui versa la nostra nazione. Purtroppo tutto questo accade perché a nessuno dei cosiddetti politici, né alle istituzioni interessa nulla dell’Italia; basti pensare alla scomparsa in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia, della grande cultura classica ed umanistica, base e fondamento sia del nostro percorso unitario che della nostra profonda identità.

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La Spina nel Fianco

 

L'ethos del cameratismo

1944 il poeta, soldato, (e bisessuale) Robert Graves, (1895 -1985) dà alle stampe il suo romanzo più famoso, "Il vello d'oro”, che parla fra altre cose, della guerra dei sessi nella mitologia Greca (successivamente ereditata dai Romani). Graves dipinge il "litigio" fra Zeus ed Era, più che come una satira sui problemi domestici delle famiglie greche, come un conflitto fra sistemi sociali inconciliabili. Nel descrivere il panteon greco l'autore narra dello scontro fra le divinità femminili dei popoli mediterranei guidate da Madre Gea e gli dei del pantheon maschile, guidati da Zeus arrivati dal nord con gli invasori achei, che si sono fatti largo a spallate nella Grecia arcaica e matriarcale. Ad Olimpia cittadina del Peloponneso occidentale, che ha dato nome alle "Olimpiadi" dove sorgeva il tempio di Gea, più venerato di tutta la Grecia, un paio di millenni prima dell’"era dell’Uomo", pare si sia tenuta una sorta di sacro G20, un super vertice religioso con lo scopo di raggiungere una pacificazione. Da un lato, le diverse manifestazioni della triplice Dea, con i loro riti della fertilità, ed un certo gusto per i sacrifici umani, dall’altro gli dei guerrieri venuti dal nord, che erano usi tenere le donne alla catena, in cielo come in terra. Ma sarà una pace fittizia, la guerra metafisica, non finirà mai, e giunge fino a noi alimentata dal tentativo del nuovo ordine mondiale di uniformare, e quindi annullare ogni diversità di genere.

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