De Regimine Principum [11]: anche i beni mondani sono più abbondanti per i re che per i re che non per i tiranni

Da queste cose risulta chiaramente che la stabilità del potere, le ricchezze, l’onore e la fama assecondano di più il desiderio dei re che quello dei tiranni; mentre proprio per conseguire indebitamente queste cose i prìncipi tendono a diventare tiranni. Nessuno infatti si distacca dalla giustizia, se non è attratto dal desiderio di qualche vantaggio.

Per di più il tiranno si priva di quella beatitudine eccellentissima che è il premio dovuto ai re; e, ciò che è ancora più grave, si procura i castighi più dolorosi. Infatti se colui che spoglia un solo uomo, o lo riduce in schiavitù, o lo uccide, merita la pena più grande - e cioè, secondo il giudizio degli uomini, la morte, e secondo quello di Dio la dannazione eterna -, quanto più deve essere ritenuto meritevole dei più gravi supplizi il tiranno che ruba a tutti da ogni parte, che s’adopera contro la libertà di tutti, che uccide chiunque per un capriccio della volontà? I tiranni inoltre raramente si pentono, gonfiati come sono dal vento della superbia, abbandonati da Dio per i loro peccati e invischiati nelle adulazioni degli uomini, e ben di rado possono degnamente riparare.

Quando infatti potranno restituire tutto ciò che usurparono al di là di quello che era loro dovuto per giustizia? E tuttavia nessuno dubita che siano tenuti a restituire queste cose. Quando dunque risarciranno tutti coloro che oppressero, o comunque danneggiarono ingiustamente?

Alla loro impenitenza si aggiunge poi il fatto che essi ritengono lecito tutto ciò che possono fare impunemente senza incontrare resistenza. Perciò non solo non si preoccupano di emendare le loro cattive azioni; ma, usando la propria consuetudine come autorità, trasmettono ai posteri l’audacia del peccare. E così davanti a Dio sono colpevoli non soltanto dei loro misfatti, ma anche di quelli di coloro cui lasciarono l’occasione di peccare.

Il loro peccato è aggravato inoltre dalla dignità della carica che hanno coperto. Infatti come un re terreno punisce più pesantemente i suoi ministri, se a lui si ribellano, così Dio punirà di più coloro che fa esecutori e ministri del proprio governo, se agiscono iniquamente, pervertendo il giudizio di Dio. Infatti nel libro della Sapienza (VI, 5) ai re iniqui è detto: «Poiché, essendo ministri del suo regno, non avete governato rettamente, e non avete custodito la legge di giustizia, e non avete camminato secondo la volontà di Dio, con orrore e presto vi si manifesterà che il giudizio è severissimo per coloro che governano. All’umile infatti si concede misericordia, i potenti invece soffriranno tormenti potenti». E per bocca di Isaia è detto a Nabucodonosor (XIV, 15): «Nell’inferno sarai trascinato nel profondo del lago. Quelli che ti vedranno si piegheranno verso di te e ti guarderanno dall’alto», come sommerso più profondamente nelle pene.

Se dunque ai (buoni) re vengono in abbondanza i beni temporali, e Dio prepara per loro un grado eccellente di beatitudine, mentre i tiranni per lo più sono spogliati dai beni temporali che bramano, soggiacendo inoltre a molti pericoli, e - cosa ben più grave - destinati ai castighi più atroci, sono privati dei beni eterni, si esige il massimo impegno da parte di quanti ricevono l’incarico di governare nel mostrarsi ai sudditi quali re, e non quali tiranni.

Abbiamo così detto abbastanza sulla funzione del re: come cioè sia necessario a un popolo avere un re, e come convenga a chi comanda comportarsi da re verso i sudditi e non da tiranno.

 


Editoriale

 

Ricostruire l'unità nazionale

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Siamo alle solite. In Italia siamo troppo occupati ad affrontare temi marginali o impostici da altre nazioni per renderci conto della grave situazione in cui versa la nostra nazione. Purtroppo tutto questo accade perché a nessuno dei cosiddetti politici, né alle istituzioni interessa nulla dell’Italia; basti pensare alla scomparsa in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia, della grande cultura classica ed umanistica, base e fondamento sia del nostro percorso unitario che della nostra profonda identità.

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La Spina nel Fianco

 

L'ethos del cameratismo

1944 il poeta, soldato, (e bisessuale) Robert Graves, (1895 -1985) dà alle stampe il suo romanzo più famoso, "Il vello d'oro”, che parla fra altre cose, della guerra dei sessi nella mitologia Greca (successivamente ereditata dai Romani). Graves dipinge il "litigio" fra Zeus ed Era, più che come una satira sui problemi domestici delle famiglie greche, come un conflitto fra sistemi sociali inconciliabili. Nel descrivere il panteon greco l'autore narra dello scontro fra le divinità femminili dei popoli mediterranei guidate da Madre Gea e gli dei del pantheon maschile, guidati da Zeus arrivati dal nord con gli invasori achei, che si sono fatti largo a spallate nella Grecia arcaica e matriarcale. Ad Olimpia cittadina del Peloponneso occidentale, che ha dato nome alle "Olimpiadi" dove sorgeva il tempio di Gea, più venerato di tutta la Grecia, un paio di millenni prima dell’"era dell’Uomo", pare si sia tenuta una sorta di sacro G20, un super vertice religioso con lo scopo di raggiungere una pacificazione. Da un lato, le diverse manifestazioni della triplice Dea, con i loro riti della fertilità, ed un certo gusto per i sacrifici umani, dall’altro gli dei guerrieri venuti dal nord, che erano usi tenere le donne alla catena, in cielo come in terra. Ma sarà una pace fittizia, la guerra metafisica, non finirà mai, e giunge fino a noi alimentata dal tentativo del nuovo ordine mondiale di uniformare, e quindi annullare ogni diversità di genere.

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