Imagine Garbatella

Dal 5 al 20 dicembre la Garbatella s’offre ai visitatori di “Abitare il paesaggio” nella sede-galleria di 10b Photography, e nei cortili di lotti storici del quartiere, per la prima volta aperti alla documentazione fotografica. Curatrice dell’evento la faentina Sara Alberani, storica dell’arte contemporanea con un CV d’eccellenza. Le tessere del racconto sono, da un lato, gli scatti di Francesco Zizola, da 12 anni indigeno del quartiere, e Giovanni Cocco, dall’altro le testimonianze degli album di famiglia tirati fuori dai comò, grazie alla raccolta promossa dal “Laboratorio Territorio Personale” in sinergia con “WSP Photography” e i centri anziani della Garbatella. Si aprono con rispetto, quasi col timore di entrare nel vissuto personale della gente, sono foto-icone dei capitoli di fiaba d’un rione giardino un tantino all’inglese, certamente tra i più caratterizzati di Roma. In Caro diario del ’93, Nanni Moretti esplorava in vespa la sua Roma agostana, deserta, giunto alla Garbatella commentava: «Il quartiere che mi piace di più è la Garbatella e me ne vado in giro per i lotti popolari. Ma non mi piace vedere solo le case dall’interno, ogni tanto mi piace vedere anche come sono fatte dentro…». Questo “paese” fantasy pare una Narnia calata dall’immaginifico sui vigneti delle contrade Bagnaia, tra la via Ostiense e il West dove la leggenda narra d’una splendida e “generosa” ostessa assai garbata coi suoi avventori. Il filo della mostra fotografa la poesia di viuzze, cortili, angoli assopiti del viver quotidiano, frugando con Zizola nella “biancheria intima” dell’ex borgata.  Il sulmonese Cocco fa il Caravaggio delle piante, autoctone o foreste, le schiude alla luce cantandone le forme, i fiori, umili prime donne su sfondi bui. I carnet familiari invece ci raccontano la vita d’ogni giorno, scorre tra le architetture dei lotti, le partite a calcio all’oratorio, le feste fatte in casa, la banda musicale di quartiere, il teatro, la politica di sezione e sono quei volti dei garbati e delle garbatelle a raccontarci la realtà antropologica d’un piccolo mondo che c’appare antico perché oramai ha quasi cento anni.

Era il 18 febbraio 1920 quando Re Vittorio Emanuele III posò la prima pietra in Piazza Benedetto Brin dove sorge una lapide commemorativa della fondazione. L’idea iniziale era un’architettura rurale estensiva cioè casette con orti sul fronte ed il retro come ad Acilia, ma la domanda di case popolari virò la scelta su un’edilizia più intensiva fatta di palazzine. E’ qui che l’immaginazione scioglie le briglie con lo stile del “barocchetto romano” traslato agli anni ’20. Corpi sinuosi delle case, comignoli, cancelli, portali, cornici degli occhi, gronde, hanno la genialità creativa di un Gaudì ma con materiali poveri, la malta rende plastici strani animali partoriti non dalla natura quanto dalla fantasia degli artigiani, per questo parlavamo di una Narnia romana. A quello stile eclettico tra medioevo e barocco si sommarono nel tempo le proposte dell’architettura razionalista, quelle scenografiche del Mida Piacentini, i quattro “alberghi collettivi”, la sperimentazione di nuovi nuclei abitativi come le bifamiliari in via delle Sette Chiese, poi l’architettura di saturazione del secondo dopoguerra. Questa sedimentazione di interventi sui 62 lotti disegnati nell’urbanizzazione, fa di quei 26 ettari un borgo a se stante, con un reticolo fitto di stradine tortuose, scalinate, piazze e piazzette, giardini, con la sua pelle amaranto e scenografie d’incanto come la scalinata di via Cialdi. Questa borgata un tempo malfamata è oggi un gioiello, una parure d’oro e rubini della nonna targata ventennio (!) e par cantare al sognatore di passaggio:” Imagine there’s heaven” girando in positivo il verso di John Lennon.


Editoriale

 

Ricostruire l'unità nazionale

di Adriano Tilgher

Siamo alle solite. In Italia siamo troppo occupati ad affrontare temi marginali o impostici da altre nazioni per renderci conto della grave situazione in cui versa la nostra nazione. Purtroppo tutto questo accade perché a nessuno dei cosiddetti politici, né alle istituzioni interessa nulla dell’Italia; basti pensare alla scomparsa in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia, della grande cultura classica ed umanistica, base e fondamento sia del nostro percorso unitario che della nostra profonda identità.

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La Spina nel Fianco

 

L'ethos del cameratismo

1944 il poeta, soldato, (e bisessuale) Robert Graves, (1895 -1985) dà alle stampe il suo romanzo più famoso, "Il vello d'oro”, che parla fra altre cose, della guerra dei sessi nella mitologia Greca (successivamente ereditata dai Romani). Graves dipinge il "litigio" fra Zeus ed Era, più che come una satira sui problemi domestici delle famiglie greche, come un conflitto fra sistemi sociali inconciliabili. Nel descrivere il panteon greco l'autore narra dello scontro fra le divinità femminili dei popoli mediterranei guidate da Madre Gea e gli dei del pantheon maschile, guidati da Zeus arrivati dal nord con gli invasori achei, che si sono fatti largo a spallate nella Grecia arcaica e matriarcale. Ad Olimpia cittadina del Peloponneso occidentale, che ha dato nome alle "Olimpiadi" dove sorgeva il tempio di Gea, più venerato di tutta la Grecia, un paio di millenni prima dell’"era dell’Uomo", pare si sia tenuta una sorta di sacro G20, un super vertice religioso con lo scopo di raggiungere una pacificazione. Da un lato, le diverse manifestazioni della triplice Dea, con i loro riti della fertilità, ed un certo gusto per i sacrifici umani, dall’altro gli dei guerrieri venuti dal nord, che erano usi tenere le donne alla catena, in cielo come in terra. Ma sarà una pace fittizia, la guerra metafisica, non finirà mai, e giunge fino a noi alimentata dal tentativo del nuovo ordine mondiale di uniformare, e quindi annullare ogni diversità di genere.

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